Esce il 18 maggio, giovedì, l’opera prima di Eugenio Raspi. Si intitola “Inox” , finalista al premio letterario Calvino, riservato a scrittori esordienti. E’ pubblicato dalla Baldini & Castoldi nella collana Romanzi e Racconti.
Raspi, in realtà, sarebbe un operaio, visto che fino a 3 anni fa, fino al licenziamento, lavorava alla Acciai Speciali Terni.
Poi la sua vita sicura alla bella età di 47 anni è cambiata (come, purtroppo a tanti altri della sua stessa età) , è stata stravolta, ha minato la sua stessa salute considerato che è caduto in depressione.
Ha raccontato la sua storia a Concita De Gregorio (La Repubblica) che ha pubblicato sul suo blog la lettera che Raspi le ha inviato e che ha inviato anche noi e che ripubblichiamo perché è semplicemente bella.
“La mia storia sono tre. A luglio 2013 vengo licenziato dall’azienda in cui ho lavorato per 21 anni, all’interno delle Acciaierie di Terni, vittima del famigerato Articolo 18, ordinamento Fornero, di cui tanti parlano e pochi sanno. Impugno il provvedimento e faccio causa all’azienda. Mentre il processo va avanti cerco di ricollocarmi, ma la crisi economica nell’area ternana non mi restituisce ciò che mi è stato tolto: il lavoro. Il processo si conclude a fine 2014 dopo 15 mesi di attesa, la sentenza stabilisce che il licenziamento è illegittimo ma scatta il risarcimento economico anziché il reintegro. Ho 47 anni e devo prendere una decisione: fare ricorso e attendere i tempi biblici della giustizia, scontrandomi con una legge modificata ad hoc che non concede speranze o dare un taglio al passato. Non faccio ricorso. Storia finita. La prima”.
“Inizia la seconda. Giornate prive di senso, porte che restano chiuse, inesistenti sostegni da parte delle istituzioni; subisco le mancate promesse di voucher formativi e assegni di ricollocamento che restano solo formali, ancora oggi, nel 2017. Diventano improcrastinabili i lavori di ristrutturazione della casa di famiglia, se non altro potrò dare dignità alla mia mente e alle mie braccia, restate inoccupate. Non posso chiedere un mutuo, utilizzo parte del TFR e mi arrangio fra ditta edile e qualcosa che posso fare io”.
“Mi dico: almeno sfrutto il bonus per incentivi alla ristrutturazione, poi scopro che da inoccupato non potrò dedurre le spese perché non ho maturato l’Irpef, ho reddito zero. Anche il morale si annulla. Continuo a cercare lavoro: o sono troppo qualificato o troppo poco; troppo in là con gli anni o poco attrattivo per mancanza di incentivi per essere assunto. Il mio profilo su www.cliclavoro non viene mai consultato. Io e il lavoro, sembra una storia finita. È la seconda”.
“Siamo alla terza. Scrivere è una passione giovanile rimasta al margine della vita. Decido di narrare dello stabilimento in cui sono entrato da ragazzo e uscito da uomo. Mi alzo la mattina e scrivo con la stessa dedizione di quando andavo in fabbrica. A Farfa, festival Liberi sulla carta, c’è un workshop di scrittura creativa. Decido di partecipare”.
“A compimento del corso si deve consegnare un racconto. Svolgo il compito e attendo. Il responso – stento a crederci – è positivo. Mi dà la forza per riprendere e migliorare la storia. A ottobre del 2015 spedisco due copie del mio manoscritto (titolo: Inox), a un premio letterario. Passati sette mesi arriva la telefonata: sono il presidente del Premio Calvino, lei è uno dei nove finalisti. Tripudio. Non vinco, ma finalmente il trascorrere del tempo ha un sapore diverso: si materializza su carta il libro che parla della fabbrica da cui sono stato espulso. Fine della terza storia, bella. Ecco. Nell’attesa di un lavoro, ho scritto dell’attesa e del lavoro”.
“INOX” è stato selezionato fra i finalisti del Premio Calvino. IL Comitato di lettura lo ha recensito così:
Il pregio del testo consiste nel presentarci una realtà assai poco raccontata dalla narrativa italiana e nella capacità di cogliere il modo in cui operai, persone tra loro diverse, vivono all’interno di questa realtà, le loro storie all’esterno, la famiglia, i sogni di evasione, la centralità che questa fabbrica ha assunto per l’intera comunità. Molto riuscito è anche nell’ultima parte del romanzo il confrontarsi dei personaggi con la morte, sia quella del padre di Sergio e Claudio (nel corso di una manifestazione in difesa dell’occupazione), sia quella di Kumar, una delle tante − ma non per questo meno individuo − vittime predestinate del nostro sistema sociale.
La lingua, scabra e ricca di tecnicismi che arricchiscono la percezione dell’ambiente, non sempre risulta sintatticamente ed espressivamente fluida. Di certo, è congrua alla materia trattata. La narrazione segue un trend realistico, senza particolari guizzi o impennate stilistiche, a parte l’irrompere dell’io dell’autore nei brani in corsivo che aprono le varie sezioni temporali della vicenda, brani che sembrano denunciare una sorta di autobiografismo: “Lì dentro ormai non c’è più posto per me. È la classica storia d’amore che finisce in odio. E di odio io ne ho davvero tanto senza sapere contro chi rivolgerlo”, come si dice nella pagina di apertura.
“Arrivano in fabbrica già scazzati, varcano i cancelli rapidi o lenti a seconda se devono o non devono dare il cambio stabilito delle responsabilità e dall’inquadramento. La portineria dell’Acciai Speciali è un’acquasantiera dove tutti intingono le mani per abitudine, portano il cartellino di plastica sotto le testine della timbratrice, una processione in fila indiana, in religioso silenzio.” L’incipit di questo inusuale romanzo ci immette in medias res e, soprattutto, ci fa cogliere immediatamente l’atmosfera che si respira in fabbrica, non una fabbrica qualunque ma la cattedrale industriale di Terni, che è stata fino a tempi recenti uno dei maggiori produttori mondiali di acciai e che ha visto una complessa vicenda proprietaria, per finire nelle mani della multinazionale tedesca ThyssenKrupp (nel romanzo, con uno scarto rispetto alla realtà, la si fa acquisire, plausibilmente, da un gruppo russo).