Di Chiara Furiani
Quello appena concluso resterà nella memoria come uno dei migliori UJ dell’ultimo decennio.
Gongolano a ragione Carlo Pagnotta, storico patron della manifestazione, le altre figure importanti del festival e le istituzioni cittadine e regionali presenti alla conferenza stampa di chiusura.
Numeri da record: oltre 42000 biglietti venduti per un incasso lordo di 2.400,00 euro.
Risultati che non sorprendono, visto il livello del cartellone di quest’anno.
Tanti i momenti da incorniciare, a partire dalla serata con Nile Rodgers, che ha letteralmente sedotto il Santa Giuliana e l’ha fatto ballare fino allo sfinimento, sciorinando l’interminabile serie di hit riempipista inanellate in 50 anni di carriera.
Arrivano naturalmente “Le Freak”, “Good Times”, “Everybody dance”, I want your love” per gli Chic, la formazione simbolo di Rodgers.
Ma la sua prolificissima penna si cela anche dietro ai successi delle Sister Sledge e poi più tardi di altri notissimi brani come “Like a virgin” di Madonna, “Notorius” dei Duran Duran, “Let’s dance” di David Bowie e quel tormentone planetario che è stato “Get lucky” dei Daft Punk.
Ed eccole tutte, per la gioia del Santa Giuliana.
“Niente tracce preregistrate: quello che ascolterete è suonato tutto live dai musicisti”, ha tenuto a precisare Rodgers a inizio concerto.
E con ciò non solo ha messo i puntini sulle i sul proprio operato, ma ha tracciato con nettezza i confini e definito la natura della disco music di quegli anni.
Considerata spesso troppo superficialmente come pura musica di intrattenimento, in realtà profondamente radicata nel funky e nella black music di cui è di fatto un’appendice.
Peccato solo che Rodgers abbia completamente omesso l’ampio repertorio di bellissimi slow degli Chic, ascoltare anche “At last I’m free” avrebbe coronato una serata perfetta.
A scaldare la platea prima di Rodgers ci ha pensato una sorprendente Veronica Swift.
Già a UJ qualche anno fa come cantante jazz, si è presentata stavolta in tutt’altra veste, un ibrido tra rock anni ’70, blues e jazz, un’amalgama non sempre musicalmente convincente ma di sicuro di grande impatto.
E anche di jazz, alla fine, fuori dal Santa Giuliana se ne è ascoltato tanto, più di quello che ci si poteva aspettare.
Tra i tanti concerti nei teatri – tanti quelli notevoli – impossibile non citare quello che più di tutti ha colpito, emozionato.
Enrico Rava è un monumento del jazz europeo, coi suoi 60 anni di carriera potrebbe permettersi di portare sul palco nient’altro che la sua presenza e un repertorio consolidato.
E invece, a 84 anni suonati, “piuttosto che dar da mangiare agli uccellini o osservare i cantieri” ha detto, scatenando l’ilarita del pubblico, ha deciso di rimettersi in gioco sul serio e per l’ennesima volta, come solo un vero jazzista sa fare.
I “Fearless Five”, formazione di giovani ma già affermati musicisti, costruisce una trama tutta ricamata attorno alla tromba di Rava, ma senza apparire mai pleonastica, cadetta, subalterna.
Di collettivo si tratta, e lo dice la musica.
L’interplay, l’interazione, è reale, i brani si arricchiscono progressivamente di elementi e fraseggi da parte di tutti gli strumenti in un crescendo che non tradisce mai cali di energia.
Un sound moderno, complesso, “ficcante” e contaminato, arricchito qua e là da inserti di live electronics e dal prezioso intervento vocale della batterista-cantante Ottavia Polidoro.