È proseguita anche nella mattinata odierna la conferenza “La riqualificazione delle aree di crisi industriale complessa: una visione per il futuro. L’Umbria e il caso di Terni e Narni” organizzata da Aspen Institute Italia in collaborazione con Confindustria Umbria e Fondazione CARIT nelle rinnovate stanze al piano terra di Palazzo Montani Leoni a Terni. Vi hanno presenziato rappresentanti delle istituzioni, del mondo economico, esperti italiani ed internazionali.
L’inserimento di Terni e Narni nell’area di crisi complessa è un’opportunità per il territorio alle prese con una lunghissima crisi economica. Ma le cose non stanno andando come dovrebbero.
“Le attività non sono ancora iniziate, siamo in una fase lenta. Speriamo che si acceleri quanto prima il tutto, ha evidenziato Antonio Alunni Presidente Confindustria Umbria, perché il tempo è una variabile che fa la differenza. Contiamo che entro il mese di settembre tutte le aziende che hanno partecipato ed avuto un primo riscontro positivo, possano trovare le risposte che consentono di sbloccare le attività ed avanzare con i lavori. Poi i tempi sono tre anni, quindi lo scenario è 2019/2021. Le difficoltà degli imprenditori locali sono, oggi, quelle di tutti gli imprenditori italiani. La prima difficoltà è avere tempi certi anche per quanto riguarda il contributo che la finanza pubblica può dare e soprattutto un supporto di vicinanza da parte di tutte le altre istituzioni per far sì che chi ha dei progetti, ha concluso Alunni, possa realizzarli in tempi rapidi”.
“La regione Umbria è stata colpita duramente dalle due crisi gemelle del 2008 e del 2011, che tuttavia hanno contribuito a deteriorare uno scenario economico locale che mostrava la corda dall’inizio degli anni 2000. È infatti a partire da quel periodo che si è creato un divario tra l’Umbria e le regioni più ricche del Paese, soprattutto in termini di produttività aggregata del lavoro. Nel tempo, quindi, la disoccupazione in Umbria è aumentata, nonostante l’investimento privato abbia resistito più di quanto non abbia fatto l’investimento pubblico”.
È l’incipit dello studio di Aspen Institute Italia, a cura di Fabio Pamolli e Armando Rungi, realizzato in occasione della conferenza ternana.
Il documento utilizza i dati di circa 62 mila imprese umbre nel periodo 2007 – 2017 evidenziando come in questo periodo “imprese molto competitive si trovino ad operare nello stesso territorio accanto ad imprese il cui livello di efficienza tecnologica è molto basso. La differenza in Umbria è data dal peso specifico del segmento di imprese relativamente più inefficienti, sulle quali è quindi più opportuno concentrare gli sforzi se si vuole invertire la tendenza. A livello globale è in atto un profondo ripensamento del modo in cui la produzione manifatturiera è organizzata. Da questo punto di vista l’Italia e l’Umbria non fanno eccezione, ma restano ancora alti gli incentivi per le imprese a proseguire strategie di offshoring e outsourcing all’estero. Ciò significa che sia gli investitori nazionali sia quelli esteri continueranno a pensare alla regione Umbria come ad una alternativa al pari di altre regioni nel mondo. In un contesto in cui le distanze geografiche diventano meno rilevanti, sarà opportuno che si punti a costruire una reputazione sulla base dei vantaggi comparati locali, per comprendere cosa l’Umbria ha da offrire al mondo della produzione che altre regioni nel mondo non possano già dare. La rivoluzione digitale non ha ancora portato all’incremento generalizzato di produttività che ci si aspettava. La capacità di recepire le nuove tecnologie richiede forti investimenti in capitale umano e una solida base finanziaria. I nuovi impianti richiedono la dismissione di quelli obsoleti. In questo stadio, un folto gruppo di imprese piccole e meno efficienti continua ad operare come se le nuove tecnologie non fossero mai arrivate, per la semplice ragione che un upgrade non è alla loro portata. In questo contesto, le politiche industriali dovrebbero intervenire per far recuperare terreno e permettere alle imprese che più ne hanno bisogno di investire in capitale umano e sviluppo tecnologico, al fine di incrementare in senso lato la loro capacità di assorbimento tecnologico. Ciò è tanto più indispensabile nel caso di un territorio che aspira ad una ristrutturazione industriale, a partire da un percorso di specializzazione produttiva in settori più maturi, dove la minima scala efficiente di produzione è in media più alta che altrove.
In Umbria, il manifatturiero in senso stretto rappresenta ad oggi solo circa il 17% del valore aggiunto totale. Ma ciò non deve ingannare l’osservatore che creda ancora alla dicotomia tra manifatturiero e servizi. Viviamo un’epoca in cui è in atto una ‘servitizzazione’ della produzione manifatturiera, perché il contributo dei servizi è fondamentale per incrementare la qualità del bene finale. Anche in Umbria, circa il 39% di valore aggiunto realizzato da una tipica impresa manifatturiera è in realtà dovuto al cruciale contributo dei servizi (marketing, consulenze, logistica, ricerca e sviluppo, engineering e design). Le imprese di Terni generano in media un minor valore delle imprese a Perugia, una volta che si tenga conto delle diverse specializzazioni settoriali. Più in generale, il valore aggiunto a Terni è minore lungo i segmenti di filiere che richiedono maggiore standardizzazione tecnologica, per esempio nelle fasi di assemblaggio e nella produzione di parti e componenti.
Più che in altri contesti, quindi, l’Umbria e le sue imprese avrebbero bisogno di cosiddetto ‘capitale paziente’ che possa aiutare ad indirizzare risorse verso obiettivi di investimento profittevole a più lungo termine, inclusa la transizione tecnologica e più in genere la ricostruzione industriale. Almeno in parte, il sollievo finanziario per un ‘capitale paziente’ potrebbe arrivare da un miglior utilizzo dei Fondi Strutturali Europei, in particolar modo se questi sono diretti a target specifici di Ricerca e Sviluppo”.