Di Chiara Furiani
Buon sangue non mente.
Anoushka Shankar è infatti figlia di tanto padre, nientepopodimeno che di quel Ravi Shankar assurto alla ribalta musicale mondiale negli anni ’60 soprattutto grazie a George Harrison, ma che in patria era già considerato l’interprete più autentico della tradizione musicale indiana.
Giovedì sera Piazza Duomo è stata illuminata dalla grazia di questa musicista sopraffina, che imbraccia e padroneggia il sitar indiano, cordofono ingombrante e complesso, come fosse la cosa più semplice del mondo.
Il sitar già di suo ha una sonorità affascinante, forse la più suggestiva in assoluto tra gli strumenti, capace quasi di una polifonia timbrica, tante sono le sfumature che produce.
Un suono che sa di antico, di spezie, di mondi lontanissimi: basta chiudere gli occhi un istante, lasciandosi trasportare come sulle ali di un tappeto volante verso un mondo da Mille e una Notte.
Ma la Shankar riesce a metterci del suo, pur rimanendo sulla scia di una tradizione millenaria e pur dialogando con l’ingombrante eredità del padre.
Già la formazione è singolare, con la formula del trio sitar, clarinetto e batteria.
Ma inusuali sono anche le contaminazioni che spesso colorano le composizioni della Shankar di nuances jazz e rock, con una spruzzatina qua e là di elettronica.
D’altra parte la nostra non è nuova a consimili esplorazioni sonore verso territori inaspettati, annoverando tra l’altro tra le sue produzioni anche frequenti collaborazioni con l’altra, più famosa, figlia di Ravi.
Quella Norah Jones adesso un po’ in sordina, ma protagonista una ventina d’anni fa di uno degli exploit più clamorosi nel mondo del pop raffinato.
Il festival più blasonato dell’Umbria non si ferma qui e fino al gran finale in Piazza Duomo del 13 luglio ha ancora molte frecce al proprio arco.
Impossibile non menzionare “The Great Yes, the Great No”, lo spettacolo multimediale ideato dal famoso artista William Kentridge, che animerà l’ultimo weekend della manifestazione spoletina.