L’associazione Toto Corde, attraverso il CESVOL DI TERNI, ha dato alle stampe un libro molto interessante , “I nostri ragazzi” che comprende gli interventi di alcuni detenuti del carecere di Terni. Fra loro gli interventi degli ex dirigenti della ThyssenKrupp, Marco Pucci e Daniele Moroni.
LA SENTENZA DEFINITIVA DELLA CORTE DI CASSAZIONE PER IL ROGO ALLA THYSSEN DI TORINO DEL DICEMBRE 2007, CON LE CONDANNE DI PUCCI E MORONI
https://terninrete.it/Notizie-di-Terni/9-anni-e-8-mesi-a-espenhahn-e-6-anni-e-8-mesi-a-pucci-345391
Il libro edito da CESVOL ospita , fra gli altri, anche gli interventi di alcuni prigionieri politici che stanno scontando l’ergastolo oltre quello dei condannati al volontariato protagonisti del festival della cultura che, nei mesi scorsi, ha coinvolto decine di detenuti del carcere di Terni.
QUESTA LA LETTERA INTEGRALE DI MARCO PUCCI
Ci passavo davanti, ci sono passato davanti molte volte, non mi sono mai avvicinato, non nascondo che quel luogo, per quello che rappresentava, mi intimoriva.
Avevo paura, paura per ciò che nascondeva, per la vita che si svolgeva al suo interno, per le persone costrette, loro malgrado, a viverci, ad assistere al lento passare del tempo.
Conoscevo quel luogo come il Carcere di Terni, quello di Vocabolo Sabbione, il nuovo carcere, quello di massima sicurezza.
Adesso non ci passo più davanti, sono dentro, ci sono finito dentro.
Ho varcato i cancelli del carcere, adesso mi trovo al suo interno, all’interno di quel luogo che mi aveva intimorito, a contatto con le persone di cui avevo appreso le storie, in alcuni casi, attraverso i media locali e nazionali, volti che avevo visto per la prima volta in televisione o sulle pagine dei giornali. Quelle persone, quei volti e quelle storie cominciano a diventarmi, a poco a poco, familiari. Quelle persone con le quali mai avrei pensato di incrociare i miei sguardi, mai avrei pensato di soffermarmici a parlare, sono diventate i miei compagni di viaggio, un viaggio lungo ed estenuante attraverso una vita parallela celata al mondo esterno.
Ho lasciato la mia vita di tutti i giorni al di là del muro di cinta, non so quando riuscirò a varcare di nuovo i cancelli del carcere a ritroso, ma so con certezza che devo essere forte, vivere la nuova realtà con grande temperamento, sapendo che ogni giorno è un giorno in meno verso la riconquista della libertà.
Prima o poi riuscirò a svegliarmi da questo incubo che accompagna, ormai costantemente, le mie notti.
Entro all’interno, varco, accompagnato dagli agenti della Polizia Penitenziaria, i vari cancelli, salgo le scale e comincio a prendere confidenza con la nuova realtà, il mio nuovo mondo parallelo. Arrivo all’ufficio matricola, mi prendono le generalità, le impronte digitali e mi scattano delle foto.
Al termine sono un detenuto, contraddistinto da una foto e da un numero. devo essere forte, mi dico. Quello che avevo visto soltanto nei film americani adesso è, ahimè, realtà.
Ormai sono parte integrante del sistema, un detenuto tra tanti, quello che eri al di là del muro di cinta non ti appartiene più, nel carcere non ci sono classi sociali, non ci sono titoli da anteporre al tuo nome, nel carcere sei un detenuto, un detenuto e basta. Una voce silenziosa tra tante.
La sezione di appartenenza, il tuo braccio, viene assegnata in base al reato commesso, io sono stato assegnato a quello dei reati comuni.
Qui dentro siamo tutti uguali, è un po’ come la famosa livella di Totò, tutti uguali dopo la morte, ed entrare in carcere è un po’ come morire.
Devo essere forte, ripeto a me stesso.
Ti crolla il mondo addosso, non hai più certezze se non quella di dover passare un lungo periodo in cattività forzata, privato dei tuoi affetti, della tua quotidianità, privato della tua libertà.
Ci spostiamo di qualche metro ed arriviamo al casellario, una sorta di magazzino, dove, dopo una minuziosa ispezione, ti tolgono tutto ciò che, secondo il regolamento, può ledere alla tua incolumità personale. Raccolti gli effetti personali “superstiti” in un sacco di plastica nero, le borse rimangono, con il resto degli oggetti personali, stoccate presso il casellario; ci si avvia verso la cella che, nell’accoglierti, sancirà il tuo battesimo all’interno del carcere.
Per evitare un impatto traumatico con questa nuova realtà e per consentirti di “acclimatarti”, i primi giorni vengono trascorsi presso la sezione Accoglienza del carcere. E’ una sorta di zona cuscinetto tra il mondo esterno e il braccio a cui sarai assegnato successivamente. Tale permanenza è, per fortuna, di breve durata e dopo qualche giorno siamo pronti per la destinazione finale, per condividere le nostre giornate con gli altri detenuti, pronti, come si dice qui dentro, a socializzare.
Piano piano prendiamo conoscenza del regolamento e cominciamo ad orientarci. Ci abituiamo, per tutte le richieste che riteniamo necessarie, ad utilizzare il modulo per le domandine. Il sistema carcerario trae la sua forza motrice dalle domandine che vengono inviate dai detenuti agli uffici del carcere preposti, dalla richiesta di colloquio, all’acquisto di prodotti di varia necessità.
In questo sistema di totale livellamento, dove il tempo è una variabile indipendente, dove i ritmi sono molto rallentati è importante mantenere il proprio equilibrio psico-fisico. Bisogna mantenersi sempre lucidi, non farsi prendere dalla depressione e dall’ansia ed avere un approccio razionale anche di fronte a situazioni, all’apparenza, irrazionali ed illogiche.
Bisogna dare un senso alla nuova avventura e fare tesoro di un’esperienza che può arricchirti sul piano umano. Penso che qualsiasi esperienza anche la più negativa possa insegnarti qualcosa. In effetti il carcere ha molto da insegnarti e da insegnare.
E in questo mondo ricco di storie, ogni detenuto ha la propria da raccontare, gli spunti di riflessione e di meditazione non mancano.
In questo microcosmo multietnico di sofferenza, di solidarietà, di urla, di risa, di rabbia ed anche di umanità, sto trascorrendo le mie giornate.
Qualcuno ha descritto il carcere come il luogo dove le cose semplici vengono rese difficili dalle cose inutili. In apparenza è vero, ma solo in apparenza, in realtà bisogna comprendere bene che tutto ciò che accade all’interno del carcere, il suo modello organizzativo, è funzionale a garantire la massima sicurezza dei suoi “ospiti”.
E’ evidente che il carcere deve esprimere al meglio la propria missione rieducativa, volta al reinserimento di coloro che, una volta scontata la loro pena, possano inserirsi nella società con gli stessi diritti delle persone “normali”. Il carcere è quindi “utile” se svolge tale ruolo e rende normali le persone che vi hanno soggiornato. Perché in una società che si rispetti non si può tollerare che ci siano delle persone considerate più normali di altre.
Ritengo che bisogna dare un senso alla missione rieducativa del carcere. Bisogna fare in modo che il percorso di osservazione e di rieducazione sia ad hoc per ogni detenuto. Ovviamente ci vogliono risorse qualificate e strutture adeguate, sia da un punto di vista numerico che economico.
Bisogna fare in modo che la struttura carceraria abbia un rapporto simbiotico con la società esterna, la prima deve “preparare” il detenuto all’inserimento nella vita sociale, la seconda deve creare le condizioni più adeguate per evitarne il rigetto. Se le due realtà sono intimamente connesse, preparate, coordinate e strutturate, l’obiettivo di reinserimento ha buone possibilità di essere raggiunto. Ci vogliono, ovviamente, progetti ed idee, bisogna mettere da parte i pregiudizi della società civile nei confronti dei detenuti e dare loro un ruolo. Tali persone hanno bisogno di una chance per essere riabilitate ed accettate, non possono essere considerate dei condannati a morte sociale, persone senza speranza.
Qui dentro ho avuto modo di apprezzare il lavoro silenzioso dei volontari che quotidianamente coinvolgono e stimolano i detenuti in attività culturali e ludico-ricreative. E’ grazie a questi “Condannati al Volontariato” se, attraverso i vari laboratori organizzati, è stato possibile dotare di occhi nuovi alcuni di noi detenuti facendoci rivedere un mondo che magari, sino ad oggi, abbiamo rifiutato, osteggiato o di cui avevamo paura. Grazie a loro è stato possibile organizzare il Festival della Cultura, dedicato alla memoria di Giovanni, Festival che ha coinvolto molti di noi facendoci, per un breve lasso di tempo, sentire attori veri di teatro. Sarebbe molto bello far conoscere questi “attori” al mondo esterno, fare apprezzare la loro spontaneità e la loro voglia di essere normali.
Ecco, questo è quello che succede nel mio carcere, nel mio mondo parallelo; una società nella società. Dove ogni giorno si cerca di dare un senso alla propria esistenza, dove si lavora affinché ogni giorno questi condannati abbiano la speranza di essere accettati e reinseriti nella società “normale”. Condannati ai quali bisogna ridare dignità e soprattutto il rispetto degli altri.
Vi chiedo di credere in queste “risorse” silenziose, di investire in questo mondo parallelo, di credere nelle loro potenzialità; vi chiedo di accogliere il loro grido di aiuto e di abbattere il muro di indifferenza che li circonda.
Recentemente ho visto un film, Invictus, che raccontava la storia di Nelson Mandela, un grande uomo. Mi sono rimaste impresse alcune parole pronunciate alla fine del film, gli ultimi versi della poesia che da il titolo al film stesso “Io sono padrone del mio destino, Io sono capitano della mia anima”.
Ecco così dobbiamo sentirci noi detenuti.
Come detto c’è anche la testimonianza di Daniele Moroni che, fra le altre cose scrive:”se il carcere può limitare gli spostamenti niente può fare per imbrigliare la mente e l’anima. I sentimenti quando sono veri e profondi possono addirittura alimentarsi delle difficoltà e della lontananza. Quello di cui però sento una grande mancanza è il contatto fisico che corrisponde a questi sentimenti. Questa è veramente una violenza che viene esercitata non solo contro di me ma anche contro le persone che amo peraltro completamente estranee agli eventi che hanno causato la mia detenzione. Le mie nipotine. Lanciarle in alto e riprenderle in un forte abbraccio, assistere alle loro scoperte e alle loro conquiste. Questo mi manca. I mie figli. Accarezzarli e cercare negli occhi la loro felicità, guardarli considerandoli come la migliore eredità che possa lasciare al mondo. la compagna della mia vita. Vedere nei suoi la nostra complicità, sentire il suo profumo, i corpi che si attraggono e si desiderano. Questo mi manca.
“I NOSTRI RAGAZZI” E’ DISTRIBUITO GRATUITAMENTE DA CEVSOL. VERRA’ PRESENTATO UFFICIALMENTE NEI PROSSIMI GIORNI
SI PUO’ RICHIEDERE AL TELEFONO 339/1843155 (FRANCESCA)
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