In occasione della giornata internazionale della donna, il Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – ha promosso varie iniziative su tutto il territorio nazionale, promuovendo una campagna intitolata: “La Polizia di Stato con le donne. Una storia di impegno e appartenenza”.
Per quanto riguarda la Questura di Terni, sabato mattina avranno luogo degli incontri nelle scuole superiori della città.
Pubblichiamo un articolo di Anna Costanza Baldry scritto per Polizia Moderna
La scia di sangue non si ferma, ma l’entrata in vigore della cosiddetta Convenzione di Istanbul ha rappresentato un ulteriore salto di qualità nella lotta contro il femminicidio e la violenza familiare sulle donne, e così anche la Polizia di Stato da oltre un anno è chiamata ancor di più a svolgere un ruolo fondamentale per il contrasto e la prevenzione di tali reati.Un ruolo che la polizia già svolgeva in passato attraverso una formazione apposita e l’attivazione di protocolli con le altre realtà del territorio che si occupano del fenomeno, ma anche con risposte concrete. Un impegno quotidiano che, però,da solo non basta. Le donne che ogni anno muoiono per mano del loro partner o ex, anche dopo averlo denunciato, sono ancora molte, troppe e il loro numero stenta a diminuire rispetto al calo degli omicidi in generale. Perché il problema della violenza contro le donne non si elimina con una legge: la violenza contro le donne ha radici culturali molto più profonde e radicate nella società per cui pur trattandosi di condotte che costituiscono reati, vengono ancora viste come “questioni private” lasciando così le tantissime donne e ragazze vittime di aguzzini, sole, impaurite, in pericolo.
Una vittima denuncia la persona con cui ha o ha avuto una relazione solo quando non ha alternative, quando è esasperata e disperata. Lei vuole che la violenza finisca, vuole vivere libera senza doversi controllare le spalle ogni volta che esce o entra in casa. Rivolgersi alla legge è come dire: «Ho paura, non so più come farlo smettere…». La vittima non può e non deve salvarsi da sola, deve essere aiutata a 360°, in maniera efficace,non stigmatizzante, con il coinvolgimento anche dei Centri antiviolenza (numero verde 15.22).
È compito di tutti e di tutte farsi carico di questo problema. Ce lo dicono da tempo le Nazioni Unite, ce lo chiede l’Europa, ma ce lo chiediamo noi stessi perché solo così potremmo sperare che le nuove generazioni non abbiano più quelle decine e decine di bambini e bambine orfani a cui ogni anno il padre sottrae la madre uccidendola, o costretti a vivere in una casa dove la violenza ha preso il posto alle carezze .In quelle case la Polizia di Stato è chiamata a dare risposte e a intervenire ogni giorno e ogni notte, in ogni città di Italia.
Le chiamano “liti in famiglia”, anche se sono spesso molto di più che liti banali, bensì vere e proprie aggressioni e in alcuni casi anche uccisioni. È un compito difficilissimo quello che si chiede agli uomini e alle donne che lavorano sulle Volanti.Spesso a uno dei loro primi incarichi, con ancora fresco il ricordo di quello che hanno studiato ma non ancora messo in pratica. Gestire un intervento di “liti in famiglia”da quando arriva la chiamata alla Sala operativa a quando si lascia l’abitazione richiede competenza, empatia,prontezza e coraggio.È così che alla questura di Milano, si sta sperimentando da oltre un anno una nuova procedura.
Ha il nomedella prima donna, Eva e secondo Maria Josè Falcicchia, dirigentedell’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico(Upgsp) che coordina il progetto con il contributo scientificodel Dipartimento di Psicologia della Seconda universitàdegli studi di Napoli, «si sta rivelando un’arma vincente».
Eva,appunto, acronimo di Esame delle violenze agite, è un protocollo ormai metabolizzato dai poliziotti delle volanti milanesi,così come le due pagine di “Processing card”, il prontuario degli interventi sui maltrattamenti diramato dal questore Luigi Savina. «Lasciando una traccia nello Sdi (Sistema d indagine),i nostri terminali, adesso possiamo intervenire in maniera più incisiva – afferma il dirigente delle Upgsp – Prima, quando arrivavamo nelle case, prendevamo atto dell’accaduto ma senza poter procedere all’arresto».
Il maltrattamento è un reato anche psicologico, le donne faticano a denunciare il padre dei propri figli, per vergogna, per paura, spesso lo perdonano o hanno un’ambivalenza che in ambito psicologico chiamiamo Sindrome di Stoccolma .
«Ora, prosegue la Falcicchia, dopo ogni intervento compiliamo questa scheda questionario,check-list in cui annotiamo ad esempio, le condizioni del luogo dell’intervento, degli oggetti, di eventuali figli, aggressioni su animali. Annotiamo se sono stati sentiti i vicini, carpendo così ogni elemento utile per comprendere quel che è accaduto. Con la procedura che chiamiamo cruscotto operativo, Cope, lasciamo un precedente in archivio che quindi risulta anche nello Sdi, in modo che, in eventuali interventi successivi fatti dalla stessa volante in quella o in altre città o dall’Arma dei Carabinieri, quel precedente è già presente e noto. Se senza uno specifico precedente non si può arrestare per maltrattamenti, ora possiamo arrestare il responsabile,per la “traccia” degli interventi fatti. Questa è una procedura efficace che evidenzia l’abitualità delle condotte violente,come prevede l’art. 572 cp e quindi ci permette di procedere d’ufficio».
Tutto ciò ha una serie di vantaggi, fra cui “sollevare” la vittima dal peso di dover denunciare il marito e compagno e quindi provare sensi di colpa, timore di minacce e ricatti o pressioni legate all’eventuale querela.
Da aprile 2014, quando è iniziata la sperimentazione, al 30 settembre 2015 sono stati effettuati 1.147 interventi da parte delle Volanti per questo tipo di chiamate alla Sala operativa.A seguito di tali interventi, per “liti in famiglia”, 78 persone sono state arrestate e 170 indagate. Assieme al Dipartimento di psicologia della Seconda università degli studi di Napoli, presso il quale lavoro e dove sono responsabile del Centro Studi-Cesvis (www.sara-cesvis.org)ci siamo occupati dell’analisi dei dati relativi a tutti questi interventi di polizia per conoscere che cosa accade e che cosa può aiutare sempre più l’operatore delle Volanti che interviene a perfezionare l’efficacia del suo operato e la prevenzione della recidiva o dell’escalation.Ne viene fuori una fotografia interessante anche se stiamo parlando di 2-3 interventi al giorno relativi alla solo questura di Milano.
L’età media delle vittime (donne/uomini) è di41 anni più o meno la stessa (40 anni) degli autori. Le vittimesono donne nell’83% dei casi (in tutto 903), mentre gli autoridelle aggressioni sono per l’87% uomini. Si tratta di coniugio conviventi e la polizia è chiamata a intervenire a tutte leore del giorno e della notte, anche se il 35% degli interventi siconcentra tra le 22 e le 6 del mattino, e nella stragrande maggioranzadei casi, come prevedibile, gli interventi sono effettuatipresso le abitazioni (82,5%). Vengono riferite lesioni riportatedalla vittima nel 46% degli interventi e dall’autore nel15% del totale. Nel 41,4% dei casi sono presenti al momentodell’intervento anche figli minori, e in circa il 30% delle voltegli operatori della polizia hanno riscontrato che i bimbi eranoagitati (16,9%), impauriti (6,3%) o piangevano (6,3%). Gli autoridelle aggressioni dichiarano di fare uso di sostanze stupefacentinel 25,6% delle volte e di alcol nel 21,5%. L’autoredelle violenze ha nel 54,5% dei casi dei precedenti, ed è interessantenotare come nel 32% dei casi è la stessa vittima che,anche in presenza dell’aggressore, riferisce alle forze dell’ordineche teme per la propria incolumità. I poliziotti stessi rilevanoche nell’11% dei casi ha direttamente assistito ad atteggiamentiintimidatori nei confronti delle vittime.
Sono solo dati, statistiche eppure si tratta di un lavoro importantissimo che forse, se esteso in maniera sistematica anche ad altre questure, può rappresentare un’ulteriore risposta efficace al reiterarsi di tali violenze perché in questi casi la risposta è altamente professionale e basata su un’immediata valutazione del rischio e della recidiva. Non è un caso che a Milano da quando è stata introdotta questa sperimentazione gli arresti in fragranza sono aumentati. I femminicidi continuano, ma intanto qualcosa si muove, anche nelle best practices.
SINDROME DI STOCCOLMA E STALKING
Elena (nome di fantasia), una ragazza di 23 anni, interrompe una “burrascosa“ relazione durata un anno; dopo l’ennesima aggressione si è infatti spaventata e ha capito che il suo ex può essere capace di tutto. Geloso e possessivo, anche quando stavano insieme la controllava, voleva sapere dove e con chi era, come era vestita, se era truccata, con chi aveva parlato al telefono e perché non aveva risposto ai suoi messaggi. Elena pensava che la colpa di tutta quella violenta ossessione fosse sua, provocata magari da qualche atteggiamento sbagliato, arrivando perfino a giustificarlo o a perdonarlo quando lui, dopo averla presa a pugni, con un fazzoletto le puliva il sangue e la coccolava. Amici e parenti le dicevano di denunciarlo, ma lei non voleva mettere nei guai quel ragazzo che secondo lei, a modo suo, le voleva bene, e soprattutto non voleva denunciarlo perché aveva paura: sapeva che era capace di ucciderla, se avesse provato a ribellarsi. Dopo l’ennesima gravissima aggressione che costringe Elena a farsi medicare presso il pronto soccorso e a seguito dell’intervento del poliziotto di turno e la denuncia d’ufficio, il giudice emana per l’ex fidanzato il divieto di avvicinarsi a Elena e di contattarla. Elena però è inquieta, comincia a dire alla polizia che così lui,per colpa sua, non può girare liberamente. È così che un giorno per “giustificarsi”, lo contatta e finisce per incontrarlo. A quel punto la misura cautelare che deve proteggere Elena dal rischio di rivittimizzazione viene revocata, perché a detta del giudice, mancano ormai i presupposti per la sua applicazione. Il sillogismo è presto fatto: tu, vittima lo rivedi, lo senti, lo incontri, quindi non hai paura.Dunque, lui non è pericoloso. Cosa è accaduto? La polizia si è ritrovata impotente. La ragazza che ha raccontato i tanti episodi di violenza subita, con tanto di riscontri, adesso è senza protezione e lei stessa di fatto sta impedendo di farsi aiutare. Elena presentai segnali propri della cosiddetta Sindrome di Stoccolma studiata e individuata anche nei casi di violenza domestica, dove il maltrattante ha agito rendendo la sua preda succube e al tempo stesso bisognosa di lui e quindi “complice”.La Sindrome presenta dei sintomi concreti, ricorrenti, anche se non è detto che siano tutti presenti contemporaneamente: atteggiamenti di giustificazione da parte della vittima del comportamento del maltrattante, ma anche di protezione e difesa; sentimenti negativi della vittima nei confronti della famiglia, di amici, delle autorità e di chiunque cerchi di aiutarla; incapacità da parte della vittima di mettere in atto comportamenti che possano aiutarla a uscire da quella trappola; comportamento altalenante e ambivalente del maltrattante/stalker verso la vittima.La Sindrome di Stoccolma potrebbe innescarsi quando si verificano le seguenti circostanze: intimidazioni gravi e ferma convinzione nella vittima che l’abusante farà quello che ha minacciato di fare; piccoli gesti di gentilezza dell’abusante nei confronti della vittima; isolamento della vittima da altre persone e da altre idee e opinioni se non quelle dell’abusante; percezione da parte della vittima di non riuscire/poter scappare da quella situazione.
La presenza e la diagnosi della Sindrome di Stoccolma può quindi spiegare anche all’operatore di polizia comportamenti ambivalenti,illogici, ‘’masochistici” che non devono però far pensare che la vittima si sia inventata le cose o che le cose non siano in realtà così gravi. Anzi. Se si sospetta la presenza di questa sindrome, la tutela deve essere immediata ancora più tempestiva, anche se in quel momento non si può contare sulla collaborazione della vittima. Appena la vittima esce dalla condizione di prigionia, prende le distanze dal suo aguzzino e si sente al sicuro, sarà lei stessa a non riconoscersi in quello che è accaduto e a volersi salvare.