Duemila posti persi in dieci anni, “duemilacinquanta per l’esattezza”, specifica Alessandro Rampiconi, segretario della Fiom-Cgil ternana. Duemila e cinquanta metalmeccanici in meno in provincia di Terni, ma nonostante ciò sono ancora i metalmeccanici a rappresentare il 56% dell’intero “parco lavoratori” del settore manifatturiero: 6.500 su 11.000. Nel frattempo qualcosa cresce: la cassa integrazione straordinaria, quella utilizzata per far fronte a stati di crisi o di ristrutturazione aziendale è raddoppiata passando da centomila a duecentomila mila ore. “Una situazione drammatica”, commenta Rampiconi.
La questione non sta solo nei numeri appena ricordati: un qualche movimento nei vari settori economici c’è sempre da aspettarselo e sarebbe anche il segno di una certa vitalità del sistema. Oltretutto sono ormai impensabili certi parametri indicativi della capacità di assorbire, nella metalmeccanica, grandi quantità di forza lavoro. Il problema vero è semmai che, quei duemila posti persi non si sono trovati in altri settori produttivi, manifatturieri o non. Si sono persi e basta e ciò significa che la trasformazione che la società manifesta non è quella di una trasformazione, ma di un impoverimento. Né si vedono all’orizzonte novità. Non si nota una vena di intraprendenza, tanto che sembra che nessuno ricordi che, ad esempio, in questa parte del sud dell’Umbria vige un provvedimento di sostegno alle nuove iniziative imprenditoriali grazie al riconoscimento dello stato di area di crisi complessa.
Comunque a Terni si pronuncia metalmeccanica e si intende soprattutto metallurgia, l’Ast, ed un sistema intrecciato di imprese di servizi e produzioni che dalle acciaierie traggono il motivo di operare ed esistere. Come vanno le cose all’Ast? Eh, mica tanto bene! C’è da fare i conti con una serie di questioni gigantesche. Ad esempio la questione dei dazi americani. Spiega Rampiconi: “Non è che l’Ast risenta direttamente della diminuita esportazione verso gli Stati Uniti. Perché i volumi di produzione che prendevano quella via erano minimi. Il fatto è che tutti gli altri produttori di acciai speciali che non possono più sbarcare in America si riversano alla conquista dei mercati che prima non erano i loro, anche quelli su cui era l’Ast a brillare”. Ed allora? “Allora c’è da far fronte ad una concorrenza che è diventata molto più agguerrita, in un mercato in cui per accaparrarsi clienti si abbassano i prezzi di vendita del prodotto”. L’Ast giustifica così il fatto che ora importi bramme di acciaio (la materia prima di lavorazione) dall’Indonesia: costa meno che produrlo, sembra, e serve per abbassare il prezzo su certi mercati. Ne consegue una contrazione della produzione nell’area a caldo, là dove si fa l’acciaio liquido che poi diventa bramme (una specie di lingottoni) i quali vengono laminati prima a caldo poi a freddo, fino a diventare rotoli di acciaio inossidabile adagiati sul cassone di un Tir o su un vagone ferroviario. La produzione Ast resta sempre alta – intorno al milione di tonnellate di prodotto finito – ma il processo subisce un cambiamento che per ora è limitato, ma poi chissà? L’area fusoria, quella che sindacalisti e operai chiamano in sigla “Lac”, si trova ad essere meno carica di lavoro, perché centomila tonnellate di bramme non c’è più bisogno di produrle, visto che arrivano belle e pronte dall’Indonesia.
Alla fine – testimonia lo stesso Rampiconi – non sarebbe una tragedia: centomila tonnellate da utilizzare per far contenti i clienti, più risparmi, si possono reggere, ma quel che si chiede è che quelle centomila siano tonnellate in più rispetto alla normale produzione. L’Ast però risponde che ha già saturi gli impianti di laminazione che non “assorbono” più di un milione di tonnellate l’anno.
Se due più due fa quattro è ovvio che a questo punto per la Fiom-Cgil diventa necessario procedere ad un potenziamento degli impianti di laminazione. Ossia servono investimenti. Che debbono venire, casomai, dalla ThyssenKrupp. La quale cosa risponde: “Certo, ma per investire prima devo vendere il comparto elevator”, ossia quello degli ascensori che pare sia diventato il fiore all’occhiello della multinazionale di Essen.
“Facciano loro – dice Rampiconi – ma il fatto è che qui i tempi non coincidono, o almeno è alto il rischio che i soldi per i nuovi investimenti ci siano quando sarà troppo tardi per intervenire in Ast”.
Ecco. E’ su questo che la Fiom vuole spingere, mobilitare lavoratori e istituzioni, coinvolgere in un’unica vertenza tutto il settore metalmeccanico sia quello che è rappresentato direttamente da Ast, sia quello che dipende da Ast: in pratica quasi tutto il comparto in provincia di Terni visto che si contano sulle dita di una mano le imprese che sono riuscite a brillare di luce propria e non di quella riflessa da viale Brin.
Una parola! Affrontare un compito così delicato da diventare complesso richiede una serie di unità e compattezze. Prima di tutto fra i rappresentanti dei lavoratori. Il sindacato dovrà trovare un accordo coinvolgendo direttamente i suoi rappresentati, ed andare avanti a ranghi compatti. Ci riuscirà? Perché l’unità sindacale del passato sembra piuttosto sfilacciata, tanto che – per esempio – la Rsu delle acciaierie non si riunisce da tempi immemorabili. ““Da un anno e mezzo – denuncia Rampiconi – e questo è un fatto senza precedenti nella storia delle acciaierie ternane. Noi abbiamo chiesto con forza, sia per le vie informali che per quelle formali, che il massimo organismo democratico della fabbrica, il Parlamento dei lavoratori, possa confrontarsi ed esprimersi in questa fase così delicata, ma ad oggi non abbiamo avuto risposta”.
“Per noi i rapporti unitari in Ast sono fondamentali – ha concluso Rampiconi – ma se non si riprenderà un’azione forte e congiunta della Rsu siamo pronti come Fiom ad avviare un percorso di mobilitazione, perché tra i lavoratori c’è grande consapevolezza e preoccupazione per il futuro della nostra fabbrica e non possiamo restare con le mani in mano”.
Ed anche questa è una situazione drammatica.