Innovazione, produttività, formazione: sono gli obiettivi da perseguire per affrontare una situazione economica decadente come quella dell’Umbria, così com’è illustrata nella relazione di aggiornamento congiunturale di fine 2019 della Banca d’Italia. Con un’avvertenza propedeutica: quando si parla di formazione spesso si pensa a quei corsi di un tot di ore che dovrebbero servire da aggiornamento e che spesso vengono presi colpevolmente alla leggera. No. Formazione ha in questo caso il significato di conoscenza, studio continuo prima nelle scuole, nell’università e soprattutto dopo l’università. Continuare a studiare sempre. Anche quando si è inseriti nel mondo del lavoro o si è impegnati in una qualsiasi attività professionale, tenendo nella dovuta considerazione, come bagaglio essenziale della “formazione permanente”, le cosiddette competenze trasversali, le soft skills, una serie di conoscenze che consentono di sviluppare creatività, equilibrio, capacità relazionali, di valutazione delle informazioni e via dicendo.
Maggiore conoscenza, aumento della produttività e innovazione. E’ quello che anni fa veniva in parole povere ma efficacemente definito come “un necessario cambio di mentalità” nel settore imprenditoriale e che oggi sembra diventato essenziale per puntare ad una inversione di tendenza, per dare una scossa alla stagnazione. Sarebbe un colpo di reni più che necessario in un’economia come quella umbra che negli anni trascorsi ha perso 15 punti di Pil pro capite – seconda nella classifica negativa tra le regioni italiane – con una provincia di Terni che è arrivata alla quota record di 20 punti perduti tra il 2000 e il 2015.
Nel 2019 l’economia regionale ha rallentato il ritmo di crescita rispetto a quello già timido del 2018. Si tratta di dati e valutazioni contenuti nel rapporto di Banca d’Italia, illustrati a Terni nel corso di un’iniziativa promossa presso la sede universitaria della facoltà di Economia all’ex convento di San Valentino. Già pubblicati nel rapporto annuale sulle economie regionali diffuso lo scorso di giugno, ribaditi – in massima parte – nell’aggiornamento di fine anno. Economia regionale, quindi, che rallenta la già timida corsa mostrata nel 2018, stagnazione del Pil precipitato negli anni scorsi, salari più bassi che nel resto d’Italia, sofferenza per le imprese esportatrici, proprio quelle che avevano registrato buoni risultati nel 2018. Dopo le turbolenze legate all’introduzione dei dazi, è stato ovviamente l’export a subire contraccolpi.
Terni e la sua provincia contribuiscono per un terzo al volume di esportazioni umbre: non solo con l’acciaio, il cui l’apporto è diminuito in ogni modo dal 63% al 53%, ma anche con la chimica (che dal 12 conta ora per il 18% nei volumi delle esportazioni) e l’abbigliamento (dal 6 al 10%). E proprio chimica ed abbigliamento fanno sì che, per l’export, il quadro ternano sia più incoraggiante, in ambito regionale, rispetto a quello di Perugia.
Resta il settore industriale, in Umbria, quello che manifesta una maggiore vivacità, mentre si assiste ad un “movimento” positivo nell’edilizia che ha visto aumentare l’occupazione (2,2% gli operai in più e 6,4% l’aumento delle ore lavorate) e registrando una maggior vivacità di mercato con le compravendite aumentate del 7,4% cui fa da contraltare un calo dei prezzi dell’1,7%.
Scarsa la vivacità nei servizi, fatta eccezione per il turismo che aumenta del 4,3% in Umbria e raggiunge i massimi storici nella provincia di Terni con una crescita dell’8,6%, soprattutto per merito dell’appeal di Orvieto e dell’orvietano.
C’è da ben sperare, in generale, per il 2020? Innovazione – uno dei tre obiettivi da perseguire per la ripresa – significa prima di tutto investimenti. Un punto dolente. L’incertezza frena. I depositi crescono, la liquidità delle aziende pure, ed aumenta la propensione al risparmio. Sono i tratti classici che accompagnano una situazione in cui la fiducia nel futuro, almeno nel breve periodo, traballa. Logica conseguenza è che la propensione all’innovazione sia scarsa.
Già noti i numeri sull’occupazione: aumenta il numero degli occupati, con una crescita del tempo indeterminato conseguenza di strumenti legislativi che l’incentivano. E aumenta la povertà, arrivata al 14,3% dall’8% registrato nel 2014. Con una notazione che può apparire strana, perché meno della metà sono coloro che, in stato di povertà riconosciuta, sono stati ammessi a godere del reddito di cittadinanza