Ben vengano i segnali di ripresa dell’economia umbra, ma servirebbe ben altro per parlare di una risalita. La Cgil umbra insomma per ora non ha elementi concreti per immaginare rosee prospettive per una regione che dall’inizio della crisi ha perso a conti fatti il 13,4% per cento del Pil, l’equivalente di 3 miliardi e seicento milioni di euro. Le previsioni di crescita per il 2017 appaiono ancora ben poca cosa: si calcola che il recupero sarà poco più dell’uno per cento, ossia un valore più basso rispetto al resto dell’Italia che pure, in Europa, cresce già meno degli altri Paesi.
I dati sono già noti. La Cgil li ha diffusi nei giorni scorsi rendendo pubblico il rapporto del’Ires, l’Istituto di ricerche economiche e sociali del sindacato. Riassumendo brevemente: ci sono segnali positivi soprattutto sul fronte delle esportazioni, mentre per quanto riguarda occupazione e consumi il quadro è molto meno esaltante. Nel 2017 il numero di occupati in Umbria è a quota 354.803, con un incremento di appena 576 unità rispetto al 2016 (+0,2%), ma a crescere è solo il lavoro a termine (+20,4%), mentre cala fortemente (specie in provincia di Terni) il lavoro autonomo e arretra anche quello dipendente a tempo indeterminato. I disoccupati tornano a crescere, raggiungendo quota 41.762. Per quanto riguarda i consumi, poi, l’Umbria registra l’ottavo trimestre consecutivo di contrazione.
E’ ovvio che non c’è da stare allegri. Anche perché un rapporto fotografa una situazione e al massimo può suggerire qualche contromisura che però va decisa da chi governa. Dal Governo del Paese (si vedrà), e da quello dell’Umbria che può metterci del suo.
C’è, nel rapporto Ires, una tabella che è altrettanto sintomatica in un quadro delle difficoltà dell’econoimia umbra ed è quella che mette a confronto i dati delle due province. E così si legge che se a Perugia gli occupati totali aumentano dello 0,5% a Terni calano dell’1%. Fra questi i lavoratori dipendenti aumentano di più a Terni (4,3%) che a Perugia (1,9%), ma come ha spiegato la Cgil si parla di contratti stipulati più che di persone perché a farla da padrone sono i contratti a termine che fanno numero, e che contano soprattutto per le statistiche (chi si ricorda Trilussa?), considerato che uno stesso lavoratore può avere nell’anno 3 o 4 contratti a termine trimestrali. E’ un dato, quindi, da valutare con la dovuta cautela. La stessa cosa, però, non vale quando si parla di lavoratori autonomi i quali diminuiscono a Terni del 14,7% (a Perugia del 3,5%). Al di là dei numeri e delle elaborazioni statistiche, il fatto che cali fortemente il lavoro autonomo ha ripercussioni negative anche sul piano sociale. Quando un lavoratore autonomo rinuncia non significa solo che c’è un disoccupato in più, ma anche che molte attività chiudono i battenti, che alcune professioni si “asciugano”, che si depaupera un sistema complesso fatto di iniziativa, di creatività, di inventiva. Nella sostanza una città ed una provincia “ammosciate”, in cui reagire diventa sempre più difficile. Il rischio d’involuzione si moltiplica così in maniera esponenziale.
Lo squilibrio, l’economia che cammina con una gamba più corta dell’altra: è questo il pericolo già in qualunque area territoriale, ma esso cresce se si prende in esame realtà piccola come l’Umbria. Ed allora, che almeno le politiche che si fanno localmente tengano conto di questo fattore. Perché finché una parte del territorio fa aumentare solo il dato statistico delle esportazioni(grazie all’industria siderurgica e metallifera) l’Umbria nella sua interezza non potrà davvero essere nelle condizioni di fare un balzo in avanti. Per questo servono due gambe entrambe efficienti.