Di Chiara Furiani
O lo ami o lo odi un live di Dylan, non c’è una terza via.
Lo odi senza mezzi termini se sei in cerca dell’artista che ti permette di fare il karaoke sopra ai suoi cavalli di battaglia, su quei brani che tutti conoscono a memoria perchè hanno segnato la storia del rock e magari anche la tua vicenda personale; se cerchi quello che ad ogni piè sospinto gira il microfono verso il pubblico e si risparmia la fatica di fare il suo mestiere, che ti fa sentire parte di un rito collettivo, che ti fa tirare su lo smartphone o l’accendino.
Di artisti così, specie a fine carriera, a Umbria Jazz se ne sono visti fin troppi.
Sia chiaro, sarò sempre grata al festival per averci portato James Brown, ma chi se lo scorda quel baraccone con lui sul palco a presenziare e 5 o 6 cantanti giovani a fare alternativamente le sue veci.
Per tanti frequentatori di concerti l’importante è esserci, e alla fine se ne tornano comunque a casa contenti.
Ma Dylan appartiene a un’altra categoria, a 82 anni suonati ti propina una scaletta che nessuno alla sua età avrebbe il coraggio di proporre.
Niente “Blowin’ in the Wind” (talmente usurata che è diventata persino un canto di chiesa), niente “Like a Rolling Stone”, niente di niente di quello che tutti si aspettano e vorrebbero sentire.
Perchè per nostra fortuna Dylan si mette ancora in gioco, scrive ancora e incide album di tutto rispetto e la sua vena creativa è tutt’altro che esaurita.
E allora giustamente è questo che vuole presentare al pubblico: ciò che è oggi, non ciò che era.
Vocalmente il Dylan di oggi è più vicino allo spoken word che a un cantato melodico – fermo restando che la sua non è mai stata la “bella voce” per eccellenza.
Lì per lì si resta disorientati, ma superato lo sconcerto del primo momento, in quella voce ritrovi lo stesso spirito di quel Dylan che hai amato, lo stesso graffio blues delle origini.
Certo, il nostro non brilla per simpatia, non si concede, parla appena, ringrazia a mezza bocca e non regala neanche un bis.
Certo, la band sembra suonare sempre col freno tirato e non si accende quasi mai.
Con tutta evidenza è Dylan a tenerli a bacchetta e gli strumentisti sono obbligati a un low profile costante per non sovrastarlo.
Certo, al concerto ti chiudono il telefonino in una busta che sarà riaperta solo a fine concerto – era ora!
Eppure, se hai aperto bene le orecchie, hai avuto conferma che un live di Dylan, oggi, ha ancora senso di esistere.
Grazie Umbria Jazz.
Ci saranno altre occasioni per divertirsi di più, ma stasera ci hai fatto davvero un gran regalo.