DI RAFFAELLO FEDERIGHI, VICE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TERNI
Ucraina e Palestina sembrano molto lontane e tra loro non connesse, ma esse, come altri conflitti, esistenti o potenziali, sono unite da una sottile linea rossa che si chiama guerra ibrida e che è un concetto perlopiù sconosciuto al grande pubblico, pur coinvolgendolo sempre più direttamente, in maniera pericolosamente pervasiva e globale.
Storicamente, ritroviamo i concetti fondamentali della guerra ibrida nelle tattiche usate dal generale rinnegato Quinto Sertorio contro la Repubblica Romana nel secondo secolo A.C. e persino durante la rivoluzione americana (utilizzo delle milizie con le forze regolari) e le guerre napoleoniche (soldati britannici cooperanti con guerriglieri spagnoli). Quindi, nulla di nuovo, soltanto un’attualizzazione dei mezzi, in linea con il concetto espresso da Carl Von Clausewitz, secondo cui ogni era ha il suo tipo di guerra.
La guerra ibrida (hybrid warfare) è una strategia militare che impiega e mescola elementi della guerra convenzionale con la guerra politica, economica, psicologica e cibernetica. In tale contesto si aggiungono ulteriori metodi d’influenza come le “fake news”, la diplomazia, i contrasti legali e le interferenze nei processi elettorali. La finalità principale, come appare evidente, specialmente per l’aggressore, è quella di evitare l’attribuzione di responsabilità dirette, restando nel campo della negabilità plausibile. La vera novità del nostro secolo è che la rete e la mente umana sono diventati ulteriori campi di battaglia.
Appare pacifico che il coinvolgimento della Russia in Ucraina può essere definito come un tradizionale attore di stato che intraprende una guerra ibrida, impiegando però un “proxy” locale. Per i non addetti ai lavori, occorre specificare che per proxy s’intende quando due potenze militari si combattono non direttamente, bensì utilizzando due fazioni locali avverse che procedono ad una sorta di “guerra per procura”.
Seguendo tale concettualità, possiamo affermare che l’Iran è certamente uno sponsor di Hezbollah, ma l’agenda risultante è che la conflittualità sul terreno è tra Israele ed Hezbollah e non tra Iran ed Israele. Chiaramente, può essere analogo il ragionamento Hamas in Palestina con i relativi proxy. In parallelo è evidente che i danni collaterali tra la popolazione civile causati dai raid aerei possono esseri usati come strumento di propaganda e favorire il reclutamento di simpatizzanti fuorviati. Occorre quindi capire che una guerra ibrida opera contemporaneamente in tre diversi campi di battaglia, ovvero quello convenzionale, tra la popolazione locale della zona di conflitto e nella complessa e variegata “comunità internazionale”.
Questa complessità di fondo della guerra ibrida ha portato alla creazione del “Centro di eccellenza NATO-UE per il contrasto della minaccia ibrida” (Helsinki, 2017) che definisce essa come “metodi e attività ampie mirate alla vulnerabilità dell’avversario”.
In effetti, la preoccupazione per la diffusione di tali metodi è crescente, anche nella fase d’identificazione di essi. La NATO, come organizzazione di difesa collettiva, può avere difficoltà a rispondere efficacemente ad una guerra ibrida sofisticata, quale indubbiamente è la versione russa di essa, che la dottrina sovietica definisce come “guerra non lineare”, nella quale il conflitto si evolve troppo rapidamente rispetto a risposte collettive tradizionali, vedi l’accelerazione e il potenziamento dell’accordo Brics (acronimo coniato dal banchiere Jim O’Neil per descrivere le economie emergenti di Brasile, Russia, India e Cina), come risposta alle sanzioni economiche.
La fine della cosiddetta “guerra fredda” ha dato origine ad una struttura unipolare (con leadership statunitense) che, unitamente alla deterrenza dell’assicurata distruzione reciproca, garantita dall’arsenale nucleare, ha mitigato il confronto delle varie potenze su scala mondiale ma, di contro, ha moltiplicato i conflitti regionali, che sfruttano la debolezza intrinseca delle strutture militari tradizionali. Peraltro occorre confutare la leggerezza con la quale alcuni autori definiscono i conflitti locali come “a bassa intensità”, poiché gli attori locali non statali hanno accentuato la letalità e la sofisticazione tecnologica dei loro arsenali, dotandosi di armamenti avanzati facilmente disponibili a prezzi sempre più bassi sui mercati internazionali a loro dedicati. Peraltro il concetto di “dual mode” si applica alla tecnologia commerciale, come la telefonia cellulare, le reti digitali, i sistemi di geolocalizzazione commerciale, facilmente utilizzabili per scopi militari sui campi di battaglia.
La Russia, strategicamente votata al multipolarismo, si è mostrata molto abile a ricorrere a tattiche ibride, utilizzando metodi non convenzionali come le compagnie militari private (prima fra tutte la Wagner, sopravvissuta alla scomparsa del suo fondatore, perché troppo utile). Essa promuove i suoi interessi in maniera globale, con particolare attenzione all’Africa (in parallelo alla Cina), occultando però il proprio coinvolgimento e defilando la sua responsabilità oggettiva nei vari colpi di stato, “regime change”, guerre civili e sedizioni, posti in essere con assoluta spregiudicatezza ma sostanziale efficacia. La risposta occidentale è stata perlopiù assente, tardiva, inefficace o molto debole e questo tenderà a convincere la Russia e i suoi partners a reiterare tali operazioni nelle parti più disparate del globo terracqueo, contribuendo, in assenza di risposte credibili, per ora latitanti, ad una progressiva instabilità geopolitica.
Di fatto, chiudendo il cerchio nella progressione argomentativa, molti studiosi, perlopiù occidentali, ritengono che sono state proprio le guerre ibride della Russia e, nello specifico, l’intervento nella rivoluzione ucraina del 2014, culminata nell’annessione della Crimea e nel sovvenzionamento della secessione nel Donbass a innescare una nuova e imprevedibile guerra fredda.
Ad evitare nuovi disastrosi emuli del non desiderabile Neville Chamberlain, ma anche folli epigoni del Dottor Stranamore, citiamo il fosco ma realistico pensiero di Dmitrij Peskov, autorevole portavoce del Cremlino, secondo cui “la guerra ibrida della Russia contro i paesi ostili durerà a lungo”.