DI ALESSANDRO SGRIGNA
Ho letto con interesse le considerazioni del collega, Avv. Massimo Proietti, in merito alle conseguenze dei provvedimenti normativi adottati dal Governo in materia di emergenza sanitaria. La parte iniziale più prettamente sociologica è quella che maggiormente ha catturato la mia attenzione.
E’ certamente vero che, costretti “ai domiciliari”, rischiamo la sindrome da stress e di “morire di noia” piuttosto che a causa del virus. Ma in un momento in cui le nostre certezze vengono meno e la nostra quotidianità, alla quale eravamo così abituati e nella quale ci cullavamo, è messa a dura prova e nulla è più scontato, domandiamoci se esista un altro modo per affrontare questa realtà, che non sia solo quello “del flusso ininterrotto della televisione o dei social nella maggior parte dei casi amplificatori di ansia più che strumenti di condivisione.”
La lettura di un classico della letteratura, ad esempio, non tradisce mai, perché la grandezza di un autore deriva dall’avere indagato a fondo la natura umana, offrendoci una chiave di lettura che forse abbiamo smarrito. In un bellissimo Pensiero, il LXVIII, Leopardi definisce la noia “il più sublime dei sentimenti umani”. In sostanza afferma che l’uomo è desiderio, ma quando ottiene qualcosa che sembrava promettergli la felicità resta inevitabilmente deluso e allora fissa il raggiungimento di un oggetto più grande e poi più grande ancora, senza mai ottenere quello che davvero spenga la sua sete di felicità e di compimento. La noia è appunto la sproporzione tra il desiderio e la capacità di soddisfarlo, “il maggior segno di grandezza e di nobiltà”, perché ci consente di indagare e conoscere l’essenza della nostra natura umana. Chi di noi non ha mai provato questa sproporzione? Quante volte, dopo aver raggiunto un obiettivo ci siamo ripetuti: “Beh, tutto qui”? L’uomo di fede ha colmato questo desiderio di infinito, riconoscendo e affermando la Presenza di Dio.
Ormai da settimane ci ripetiamo il tormentone che andrà tutto bene, anche se non ho ancora capito cosa voglia dire. Andrà bene se resteremo vivi? Perché qui ogni giorno muoiono decine di persone, anziani, vecchi (e non solo) spesso senza il conforto dei propri cari e senza nemmeno un funerale decente. Tutti ci auguriamo che questa situazione cambi al più presto, ci mancherebbe altro, ma adesso ci siamo in mezzo, queste e non altre sono le circostanze che siamo chiamati a vivere, quindi riponiamo le pantofole sotto il letto e cominciamo a domandarci cosa può impedirci di essere travolti dalla paura, di disumanizzarci, cioè di sprecare questo tempo che è comunque prezioso, senza censurare nulla della nostra vita.
Rileggiamo il più grande dei poeti. Dante, nel III canto del Paradiso incontra Piccarda Donati, nel primo cielo, quello più vicino alla terra e più lontano da Dio. E lui la provoca con una domanda molto naturale e spontanea, che traduco con licenza: “Ma tu non vorresti occupare un posto più avanti, un po’ più vicina a Dio e più amica di quelli che hai intorno?”. La risposta di Piccarda è meravigliosa:<<Frate, la nostra volontà quieta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta>>. (Fratello, la virtù della carità placa la nostra volontà, e ci induce a volere solo ciò che abbiamo e non ci fa desiderare altro). Lei che è già tutta immersa nel Mistero Infinito di Dio.
Si capisce il genio di Dante? Ci sta dicendo di accettare la nostra vocazione, la nostra persona nella sua singolarità e le circostanze che ci sono date di vivere; la famiglia, la città, il quartiere, il lavoro, il dolore e la fatica che dobbiamo affrontare ogni giorno sono un fattore ineliminabile. Chiediamoci quanto tempo perdiamo a lamentarci e a cercar di cambiare le circostanze, perché quelle in cui siamo immersi le riteniamo sbagliate, un incidente. “Se avessi un altro lavoro, se guadagnassi di più, se avessi quest’altra famiglia……..”; la nostra vita passa, travolta da un mare di “se” e non solo al tempo del coronavirus. Tutti abbiamo diritto a migliorare la nostra condizione, ma nella casa in cui adesso siamo rinchiusi c’è nostro marito, nostra moglie, i nostri figli. Se non li guardiamo adesso per quell’essere unico ed irripetibile che sono, allora quando? Giusti o sbagliati, sono coloro che ci accompagnano, giorno dopo giorno, al compimento del nostro destino. E’ una questione di sanità pubblica, di sanità mentale, contro lo stress e la paura, che pure ci sono, per tornare agli spunti dell’Avv. Proietti.
Certo, chi come me condivide la fede cristiana forse ha un vantaggio e prega mendicando la presenza di Cristo in mezzo alla tempesta. Ma la fede non risolve il problema, non elimina dolore e sofferenza, soprattutto quando è stanca, abitudinaria, una fede da sagrestia staccata completamente dalla vita. Quale opportunità abbiamo oggi (oggi, non quando andrà tutto bene) di rimetterla a tema e chiederci se si fonda su una Presenza reale ed è il criterio per giudicare tutto, oppure coincide con il nostro modo personale di concepire Dio! Ma anche chi la Grazia della fede non ce l’ha – come Leopardi, che tuttavia ci ha insegnato che il cuore di ogni uomo desidera l’ “infinito” – è chiamato a scoprire come le sfide che la realtà non ci risparmia possano diventare il nostro più grande alleato, che ci costringe a guardare più in profondità il nostro essere uomini, di che pasta siamo fatti.
Guardiamoci intorno: guardiamo al sacrificio dei medici che ogni giorno danno la vita nel prendersi cura dei malati – “per noi non sono numeri, sono la nostra vita”, ho sentito dire ad un uomo che lavora in una casa di cura – mettendo a rischio la salute dei propri familiari; guardiamo alle migliaia di volontari che si mettono a disposizione di chi ha bisogno, magari facendo la spesa o procurando medicine; guardiamo alla consueta generosità degli italiani che fanno donazioni per la fornitura di materiale sanitario; guardiamo infine a chi, tra mille errori ed incertezze sta cercando di “governare la barca”; insomma guardiamo a tutta quella umanità che non si rassegna all’imbarbarimento, cui rischiavamo di arrenderci già prima che arrivasse il virus. Quando tutto sarà finito, niente sarà più come prima, ma a quel punto ci volteremo indietro e ci domanderemo: ma io cosa ho imparato da tutto questo, qual è stato il mio contributo? Sono cambiato? Come sono cambiato? Perché se non sono io il primo a cambiare, neanche il mondo cambia.
E allora continuiamo pure a ripeterci che tutto andrà bene, ma riflettiamo sul fatto che, come ha detto Vaclav Havel, “la speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire”.
L’AUTORE E’ AVVOCATO DEL FORO DI TERNI.