La questione non è la vendita, ma come, quando e a chi sarà trasferita la proprietà dell’Ast.
Prima di tutto: quando? I sindacati chiedono che tutto avvenga nei tempi più rapidi possibili. Perché è chiaro che la condizione di “figli di nessuno” alla fine nuoce: i concorrenti si fanno avanti per sottrarre clienti; i clienti possono cominciare a perdere fiducia e rivolgersi altrove; mentre la fabbrica diventa più povera non solo per quote prodotte e vendute e quindi per introiti, ma anche per professionalità le più valide delle quali possono cercare e trovare altri lidi. Il tempo che passa, quindi può innescare una spirale di decadenza irreversibile, che può essere più o meno lento, ma che diventerebbe giorno dopo giorno sempre più inarrestabile. Far presto, ma ThyssenKrupp ha informato che avvierà la procedura dal 1. Ottobre, dopo di che ci vorranno settimane per manifestazioni di interesse, disamine varie, formalizzazioni delle offerte e asta. I sindacati si sono dichiarati pronti a sottoscrivere un accordo per il periodo di transizione pur di evitare decadimenti possibili, ma l’azienda non ha risposto. Come non ha risposto a richieste riguardo occupazione, produzione, rete commerciale… “Non posso impegnarmi su niente”, ha allargato le braccia l’AD di Ast.
A chi vendere? Certo l’acquirente non se lo possono scegliere i lavoratori né lo può scegliere la collettività ternana, umbra o italiana che sia. Ma qualche paletto bisognerà pur metterlo. Chi compra Ast si troverà a gestire una “macchina” complessa e costosa, che abbisogna di risorse economiche e finanziarie di un ceto livello; che abbisogna di investimenti; che deve continuare a svolgere il ruolo di impresa trainante su un territorio che invece mostra già criticità acute pure in altri settori produttivi (vedi Treofan per la chimica, vedi Sangemini e Amerino nelle acque minerali, vedo i commerci e il turismo) per cui se non si interviene ed in maniera sollecita e decisa si rischia di vedere la parte sud dell’Umbria decadere – se andasse bene – a semplice dormitorio di Roma, un luogo dove non c’è futuro per il “nuovo” e quindi per i giovani che – fenomeno già in atto e preoccupante – debbono trasferirsi per trovare occupazione. Chi compra l’Ast dev’essere inoltre in grado di operare nel settore della siderurgia a livelli alti e globali, essere attrezzato per ballare sul mercato internazionale dovendo far fronte ai colossi stranieri.
Come vendere? Il come riguarda il sito così com’è concepito da decenni: un sito unico. E quindi no a spacchettamenti così com’è avvenuto negli anni passati al polo chimico quando, crollata la Montedison ci si è trovati a gestire una pluralità di realtà di dimensioni contenute e perciò di “peso” contenuto sui mercati, nella geografia politico-economica del Paese.
Queste le esigenze primarie, i traguardi da perseguire, i paletti da non svellere. E questo hanno voluto far sapere i sindacati ternani promotori di un incontro coi deputati eletti in Umbria, e a parte coi deputati europei rappresentanti a Bruxelles della fascia del centro Italia.
Perché ciascuno di loro nel proprio ruolo possa “tirare” dalla stessa parte, ponendosi lo scopo – senza rinunciare a distinzioni, né a convinzioni o posizioni politiche – di costruire un futuro per il sud dell’Umbria. Ronunciando, magari e se fosse possibile, a posizioni propagandistiche affiorate persino nel corso dell’incontro tenutosi nella sede ternana della Cgil e quindi completamente stonate e fuori luogo.
Altri sono gli argomenti da tirare in ballo. Cominciando dall’aver chiaro quele sia il posto di una realtà come l’Ast nel quadro generale della siderurgia italiana, la quale, è noto, se la passa così e così…
Dei siti “storici” rimasti si sa quale sia la situazione a Taranto; si conosce quella di Trieste dove si sta procedendo allo smantellamento della vecchia Ferriera; si sa si Piombino dove si vogliono introdurre i forni elettrici ma ancora non sono iniziate nemmeno le operazioni di bonifica del territorio “segnato” da decenni si attività industriale selvaggia, le quali costituiscono il presupposto essenziale per tutto il resto.
Quattro con Terni, i “poli” che – su questo sembra ci sia una quasi unanimità di giudizio – conservano ognuno una propria specificità, una produzione diversa rispetto agli altri, una clientela ed un mercato diversi. In comune hanno solo il fatto che producono acciaio ma con differenti metodi di lavorazione e tipo di acciaio sfornato.
Terni fa acciai speciali, anche se ormai questo significa solo inossidabile. Usa forni elettrici, meno inquinanti – appare superfluo specificarlo –rispetto agli altiforni a carbone. Se qualunque piano dello Stato italiano fosse ispirato o privilegiasse principalmente la questione ambientale l’avere già forni elettrici potrebbe essere penalizzante per lo stabilimento ternano. Faccenda da evitare, ovviamente. Forni elettrici significano energia elettrica: esiste o no, per l’Ast, una questione costo dell’energia? Si trascina da qualche lustro ed esiste eccone: basta dire che l’Ast spende più per l’acquisto di energia che per il personale.