Temporanea infermità mentale: con questa motivazione nella tardissima serata del 6 agosto 1909, la Corte d’Assise di Spoleto, mandò assolto il dottor Vincenzo Blasi, che alla fine di novembre dell’anno prima, aveva assassinato la moglie Erminia Micheli e ferito colui che pensava ne fosse l’amante: Raimondo Cianfruglia, professore di latino al liceo classico di Terni, insegnante dei figli dei Blasi.
Un’assoluzione o una condanna non pesante, per come si mise subito il processo, erano nell’aria, fin dal 3 agosto a mattina, al momento dell’avvio, in un’aula del Palazzo di Giustizia di Spoleto gremita in ogni ordine di posti: gente arrivata da Nocera, dove il dottor Blasi era medico condotto; da Terni, dove la famiglia Blasi s’era trasferita da due o tre anni e dove l’uxoricidio si era consumato; da Perugia, dove Vincenzo Blasi, membro autorevole del partito socialista umbro, era molto conosciuto.
Tutti manifestavano la loro stima e la loro simpatia per l’imputato, un uomo che reputavano “per bene, equilibrato, dedito alla famiglia, innamoratissimo della moglie e traboccante d’affetto per i figli”.
Diversa era il giudizio sul professor Cianfruglia, considerato e definito come l’uomo che aveva portato il disonore, una specie di spregiudicato play boy dell’epoca. Nell’opinione pubblica – che molto s’interessò della terribile vicenda – era diffusa l’opinione che si trattasse di un tombeur de femmes pronto a passare sopra a qualunque cosa. “Mettetelo in galera” tuonò una voce quando Cianfruglia fece ingresso in aula per raccontare alla Corte d’Assise la sua versione dei fatti. Tutti, che s’aspettavano di trovarsi al cospetto del classico damerino affascinante, rimasero sorpresi nel valutarne la prestanza fisica: 34 anni, calvo, appariva molto più “maturo”. “Tutt’altro che un Adone”, scrissero i giornalisti dell’epoca, i quali riferirono per quattro giorni consecutivi tutti i particolari del processo.
“Sono tutti inveleniti contro di me – sbottò davanti ai giudici – e nessuno considera che io sono una vittima, la parte lesa in questo processo”.
E già: in effetti anche lui era stato bersaglio di un colpo di pistola che lo aveva ferito alla testa e in fin dei conti s’era salvato solo grazie alla presenza di spirito di fingersi morto.
Non ci fu scampo invece per la bella Erminia, la moglie di 35 anni del Blasi: dopo il primo colpo a Cianfruglia, scaricò la pistola a sette colpi contro la moglie, il dottore che aveva sorpreso – e non era la prima volta – i due insieme nel salotto di casa sua. “Non facevamo niente”, esclamarono i due, sorpresi di trovarselo davanti ad un’ora in cui sarebbe dovuto essere impegnato nelle visite dei pazienti a Nocera.
Erano davvero amanti Erminia e Raimondo Cianfruglia? La povera donna ormai non poteva più parlare, spiegare, magari fornire giustificazioni del suo operato, difendersi in qualche modo. Di lei parlarono una sequela di testimoni, soprattutto di Nocera o amici di famiglia dei Blasi, che la dipinsero come una signora bella, elegante, che amava farsi corteggiare. Proprio le voci insistenti su comportamenti disdicevoli della donna, avevano spinto Blasi, con la motivazione che i figli s’erano iscritti al Liceo di Terni, a trasferire tutta la famiglia da Nocera.
Cianfruglia, davanti alla Corte d’Assise, si dipinse come uomo probo, due volte vittima. Prima di tutto di Erminia la quale, sì – disse – nutriva un certo affetto per lui, che però mai s’era approfittato di ciò. Le poesie a lei dedicate e pubblicate sull’Unione Liberale? Le lettere e i bigliettini affettuosi? Non avevano intenzioni diverse da quelle dell’omaggio alla bellezza, ispirate da un sentimento poetico e romantico. Niente di più. Le ciocche di capelli trovate a casa sua? Erano di un’amante che aveva avuto tempo prima e che abitava a Roma. La foto a Colle dell’Oro l’uno vicino all’altra? Era stata lei a mettersi a fianco a lui che manco voleva. Le lettere con cui lei lo sollecitava ad incontrarsi di nuovo? Si, ma lui, se agli incontri c’era stato, non aveva mai travalicato certi limiti che erano quelli del massimo rispetto dovuto ad una signora. Le passeggiate mano nella mano ai giardini della Passeggiata? Erano balle riferite dai testi. I raid da lui compiuti nella casa della donna alle ore più sconvenienti, ma immancabilmente quando il marito era a Nocera, dove si tratteneva in qualche caso anche per la notte? Erano dovuti a questioni logistiche e collegate al suo ruolo di insegnante dei figli della coppia, anche se vari testimoni (la donna di servizio, la lavandaia, amici dei figli della coppia) raccontarono di intrattenimenti prolungati e dietro la porta chiusa del salotto.
Gli avvocati difensori, l’on. Cesare Fani e il commendator Salvatore Fratellini (Giuseppe Sbaraglini esponente di primo piano del partito socialista dovette rinunciare perché in clinica a Firenze) impostarono il processo proprio sulla totale infermità mentale, seppur temporanea, del loro assistito. Non fecero accenno alle norme allora in vigore del delitto d’onore.
Il Pubblico Ministero si dichiarò per la concessione della sola attenuante della grave provocazione,ma che non si poteva affatto parlare di infermità mentale dell’imputato in occasione della sparatoria.
I giurati della Corte d’Assise ritennero invece che sì, che Vincenzo Blasi avesse fatto fuoco per aver perso il lume della ragione. E la sentenza fu perciò di assoluzione. Blasi fu condannato a due mesi di reclusione, ma solo per la detenzione illegale della pistola. FINE
LA 1^ PARTE DELLA STORIA