Lo scorso martedì 28 aprile Terni in Rete ha pubblicato la presa di posizione di “Civiltà Laica” sulla difficoltà delle donne di poter procedere all’interruzione della gravidanza , in tempo di emergenza coronavirus. La stessa associazione attaccava duramente i movimenti pro life.
QUI L’ARTICOLO
Pur non rispondendo direttamente a Civiltà Laica, l’A.I.G.O.C , (ginecologi e ostetrici cattolici) attraverso il dottor Alberto Virgolino, ginecologo, membro del consiglio direttivo e membro del Movimento per la Vita di Terni, sottolinea il “danno psicofisico” cui la donna è sottoposta attraverso l’utilizzo della pillola RU 486, un dolore che “rimane, anzi è maggiore.”
DI ALBERTO VIRGOLINO
I dati scientifici riportati nel comunicato stampa della Associazione Italiana dei Ginecologi ed Ostetrici Cattolici evidenziano l’inganno ideologico sotteso nel promuovere l’aborto volontario farmacologico con la pillola Ru486, approfittando in modo surrettizio proprio di questa tragica situazione di emergenza pandemica. Non si vuole riconoscere il danno psicofisico a cui si espone la donna con questo tipo di aborto. Si vuole ciecamente sostenere la logica disumana della legge 194 che nega la vita all’essere umano più innocente e più fragile nelle sue fasi iniziali di sviluppo. Ma così viene addirittura rafforzata questa logica a grave danno della stessa salute della donna, lasciata sempre più sola nella sua scelta che falsamente la vorrebbe protagonista della sua autodeterminazione. La donna diviene ancora più vittima della sua stessa dolorosa scelta. Sì, perché rimane, anzi è maggiore il dolore fisico e psichico, come detto nel comunicato! Si tratta dunque di un ulteriore tentativo mediatico di banalizzare la scelta abortiva, rendendola possibile sempre più al di fuori della stessa legge 194, semplificando al massimo e privatizzando la procedura. Con l’aborto chimico viene di fatto impedita proprio l’attuazione di quegli articoli che permettono alla stessa donna di essere aiutata a preservare la sua maternità, rimuovendo gli ostacoli materiali, psicologici, sociali, sanitari a causa dei quali si sente “costretta” ad abortire.
Il nostro esclusivo interesse è per il bene della donna, per la sua salute integrale, rispettandone tutte le sue qualità e peculiarità, consapevoli che la maternità anche quando non desiderata, è comunque una condizione unica per sperimentare il vero bene, il più grande bene per la sua vita, perché si tratta di una scelta di amore, per la vita del figlio, di cui è impossibile pentirsi.
Il comunicato cui fa riferimento il dottor Virgolino è quello del 10 aprile scorso dell’associazione che riunisce i ginecologi e gli ostetrici cattolici. Eccolo.
Gli appelli al Presidente del Consiglio, al Ministro della Salute e all’AIFA che due società scientifiche e diverse personalità note sui social media hanno fatto per estendere l’aborto farmacologico Ru486 (detta pillola del mese dopo, “kill pill” cosi definita nel mondo anglosassone) per autorizzare l’aborto farmacologico a domicilio senza bisogno del ricovero ospedaliero (l’aborto fai da te) e per estendere da 7 a 9 settimane l’epoca gestazionale cui è consentito ricorrervi, ci ha lasciati basiti.
Innanzitutto perché le difficoltà di attuare la scelta interruttiva sono state smentite da molti ospedali e in secondo luogo per la apparente indifferenza con cui si affronta un tale dramma in relazione alle conseguenze fisiche e psicologiche sulla salute delle donne. Infine, stupisce soprattutto la posizione di uomini di scienza che riteniamo di particolare gravità essendo coloro che dovrebbero tutelare la salute delle donne.
Il primo aspetto riguarda l’idea di incrementare il ritorno al privato, alla clandestinità dell’aborto volontario aumentando il peso psicologico nell’assumere la pillola abortiva dopo una scelta già difficile di rinunciare al proprio figlio.
Il secondo aspetto riguarda la sicurezza dell’aborto farmacologico le cui conseguenze sul piano fisico appaiono fortemente sminuite da certa letteratura e vengono completamente dimenticate le 40 morti materne riferite dall’OMS, silenziose, dovute prevalentemente all’infezione da clostridium sordelli, favorita da una vera e propria immunodepressione della risposta immunitaria. Inoltre, come è stato evidenziato nelle due ultime relazioni annuali al Parlamento sull’applicazione della legge 194/1978 (la relazione del 2019 non è stata ancora presentata!!!) è chiaramente specificato il maggior rischio legato all’aborto volontario con Ru486.
Tra il 2014 ed il 2016 ci sono state tre morti dopo aborto farmacologico (1 a Torino e 1 in Campania nel 2014 e 1 in Campania nel 2016). Prendendo in considerazione la sola morte di Torino ed il numero totale degli aborti volontari farmacologici fatti in Italia dal 2009 al 2016 (62.872), la mortalità materna è di 1,59/100.000 donne superiore all’1.1 x 100.000 donne registrata in altri lavori 15.9 volte superiore a quella dell’aborto chirurgico (0,1/100.000) (New England Journal of Medicine, 2005; Italian Journal of Gynecology and Obstetrics, 2008).
Inoltre è a tutti evidente che se l’epoca gestazionale viene portata a 9 settimane il numero totale delle donne sarebbe più che raddoppiato (nel 2017 le donne con epoca gestazionale fino a 8 settimane sono state 37.508, le ivg farmacologiche 14.267) e di conseguenza aumenterebbe notevolmente il numero di donne (minimo ~ 1.000) che avranno bisogno di essere sottoposte a revisione della cavità uterina per metrorragie confermando le complicazioni segnalate dalla FDA statunitense nel 2006 (950 complicazioni di cui 116 trasfusioni, 12.21%, 232 casi di ospedalizzazione, 24.42%). Infine oltre all’aumento numerico non si tiene conto che chi abortisce a casa ed ha una metrorragia abbondante corre subito al Pronto Soccorso quando si accorge di perdere molto sangue. In tal modo si crea maggior disservizio di quando il tutto avviene in una seduta programmata in ospedale ed esponendosi così realmente ad un maggior rischio di contagio.
Il terzo aspetto riguarda la solitudine delle donne: la donna è lasciata sola a convivere nell’attesa dell’espulsione del proprio bambino che può avvenire anche in presenza di altri familiari e, come riportato dal British Medical Journal, nel 56% dei casi le donne riconoscono l’embrione espulso.
Tutto questo rattrista molto perché di fronte all’eroismo di tanti colleghi medici (più di 100) che hanno perso la vita per curare persone ammalate di Covid-19, si constata la reticente connivenza di chi sa benissimo che l’aborto farmacologico è più rischioso di quello chirurgico. La manipolazione mediatica e psicosociale invoca uno stato di necessità che non c’è. Invoca i diritti delle donne senza tutelarne la salute fisica e/o psicologica.