L’ex assessore alla cultura del Comune di Terni, Giorgio Armillei fa una analisi della situazione regionale nell’imminenza delle elezioni anticipate che si svolgeranno il 27 ottobre. Sembrano lontane ma mancano meno di 60 giorni.
Come arriva la regione a questo delicato passaggio? In una fase di declino – sostiene Armillei – iniziato ben prima della crisi. Colpa della debolezza del modello sociale sul quale la politica ha investito e della difficoltà delle imprese a fare innovazione. Colpa anche del fatto che la politica ha snobbato la “questione urbana”.
QUESTO L’INTERVENTO DI GIORGIO ARMILLEI
Ammesso che vada in porto così come si va delineando, la formazione del nuovo governo a livello nazionale non potrà non avere effetti sulla formazione delle liste, sulla scelta delle candidature e sulle future decisioni per il governo della Regione Umbria. Effetti che andranno per linee interne ai partiti – chi vince, chi perde e come ci si riposiziona dopo la crisi di agosto – ma anche per linee esterne: si apre una partita di nuove alleanze, nel breve e nel medio periodo; il sistema elettorale proporzionale genera la proliferazione di liste e candidati acchiappavoti; il collegio unico serve a garantire candidati blindati dai negoziati sulle preferenze individuali e non certo a rappresentare in modo equilibrato i territori; e così via.
Ora, se l’effetto della crisi di governo indurrà una ridondante dinamica tatticistica, resta pur sempre vero che di fronte alla politica regionale stanno anche un bel numero di decisioni dalle quali dipende buona parte – non tutto per fortuna – del futuro delle realtà sociali regionali, a partire dalle città. Detto in altri termini, non sono poche le questioni di contenuto in uno scenario che vedrà lo strapotere della corsa al posto o alla difesa del posto.
Lasciamo dunque da parte i tatticismi, facendo per un momento finta che non contino o che contino poco, e vediamo alcune delle questioni di contenuto. Per una volta mettiamo le policy prima della politics. L’Umbria – nome per una cosa tutt’altro che unitaria e che dal punto di vista degli interessi di città e territori significa veramente poco – ha almeno tre grandi questioni da affrontare: le classi dirigenti dell’Umbria, dalla politica all’economia, dalla religione alla cultura, sono infatti di fronte a un passaggio cruciale.
L’Umbria vive da anni una fase di declino, inesorabilmente registrato dai numeri della sua economia nonostante più volte quelle classi dirigenti abbiano tentato di esorcizzarli spostando l’attenzione sulle qualità del cosiddetto modello sociale umbro. Un declino che presenta due caratteristiche particolarmente severe. È un declino che inizia ben prima della crisi a testimonianza di una più remota crescente debolezza di quel modello sociale. Ed è un declino che sconta la bassa capacità dell’Umbria di fare innovazione. Dal che si capisce bene che la questione del declino dell’Umbria è una questione tutt’altro che solo politica.
L’Umbria, in ragione delle sue ridotte dimensioni ma anche e soprattutto del modello di crescita a trazione politico amministrativa a lungo praticato dalle sue classi dirigenti, sconta l’eredità di comportamenti della sua classe politica tipici di un ruolo estrattivo, di intermediazione a basso valore aggiunto, riproduzione in scala ridotta di quel “modello spartitorio” che il sistema politico nazionale ha praticato a partire dalla fine degli anni sessanta. L’Umbria – nata proprio in quegli anni come apparato politico amministrativo di governo – è rimasta lì.
E non si tratta di un’analisi nuova: basta tornare ad un libro sull’Umbria del 1983 di Trigilia e altri sul cosiddetto “sistema politico amico” fatto di partiti, burocrazia, sindacato consociativo, terziario e terzo settore dipendenti dalla politica, per trovare considerazioni analoghe. Senza un robusto scossone a quel modello politico burocratico sarà impossibile, qualunque sia il vincitore di ottobre, invertire la rotta del declino.
L’Umbria infine ha un’irrisolta questione urbana. Per decenni, a partire dalla politica della città-regione, impasto di ideologia e di interessi, l’Umbria non ha saputo e non ha voluto prendere atto del fatto che sono le città il motore dello sviluppo e della crescita. Non le città nei loro confini burocratico amministrativi ma soprattutto i sistemi urbani che si sviluppano per linee territoriali che ignorano i confini amministrativi, locali e regionali. È la Regione come apparato politico amministrativo a dover svolgere un ruolo sussidiario rispetto alle dinamiche urbane e non le città ad essere terminali locali di politiche distributive regionali. Venti e più anni di pianificazione regionale per lo sviluppo, dai governi Lorenzetti e Marini fino alla recenti performance dell’area di crisi complessa, si sono rivelati al contrario un quasi totale fallimento, nel senso che non hanno intaccato i punti di debolezza strutturale del sistema regionale.
L’intreccio di interessi tra Terni, il sistema metropolitano romano e il corridoio dell’Umbria flaminia da Civitavecchia ad Ancona; la conseguente proiezione adriatica di Foligno; la gravitazione di Orvieto verso Roma e la Toscana; l’implosione introversa di Perugia, e si potrebbe proseguire con altri esempi, sono fenomeni volutamente sottovalutati da una classe dirigente incline a pensare che fosse meglio difendere l’Umbria politico amministrativa che non l’Umbria delle città e della crescita.
Invece di mettere in piedi un modello regionale di governo capace di supportare e rafforzare le dinamiche di crescita dei sistemi urbani, si è preferito nel migliore dei casi elaborare ideologie regionalistiche del tutto sovrastrutturali (alla città regione che perse progressivamente smalto si sostituì il fantasma della deriva centrifuga delle città che sarebbero state inghiottite dalle dinamiche egemoniche dei territori confinanti) e nel peggiore dei casi difendere semplicemente un fortino politico amministrativo, distribuendo risorse in modalità spartitoria per tenere legati a sé gli aggregati di interessi indisponibili ad affrontare il rischio dei mercati e dell’innovazione: territori; imprese; realtà ecclesiali; università, e così via. Tanto che quando si è pensato di riscrivere il regionalismo ci si è preoccupati di prendere la Regione così com’è e metterla in una scatola più grande (la macroregione). Oppure, diversamente ma con lo stesso obiettivo politico di conservazione, si è pensato all’ennesima strategia di riordino e riequilibrio istituzionale, senza mai mettere in discussione qualità e strumenti del livello regionale di governo. Certo, iniettare in questa situazione dosi di culture politiche stataliste o sovraniste significa gettare benzina sul fuoco.
Ora la storia presenta il conto. Le aree urbane che corrono dopo aver riacciuffato i livelli precrisi ed essere andate oltre, non sono soltanto quelle del triangolo Milano-Treviso-Bologna. Sono tutte quelle che hanno scommesso sulle risorse locali, su politiche di sviluppo agganciate ai corridoi e alle reti metropolitane ed europee e che hanno “piegato” gli apparati regionali ai loro interessi di crescita. Bene i tatticismi politici, bene la politica come competizione per il potere ma quando c’è di mezzo lo scivolamento e la decrescita dovrebbe venire anche il momento della svolta radicale.