DI RAFFAELLO FEDERIGHI
Giovedì 23 giugno scorso si è svolto nel Regno Unito il referendum che chiedeva ai cittadini inglesi se rimanere o meno nell’Unione Europea. Il risultato, per molti versi previsto e molto osteggiato dalla casta, è noto: il voto “leave” è prevalso, il popolo inglese, a chiara maggioranza, ha deciso di uscire dall’Europa, ovviamente intesa come federazione di stati e non certamente dall’area geografica così chiamata.
Un certo settore di opinione, peraltro abbastanza trasversale, diciamo gli addetti ai lavori, i radical chic, l’intellighenzia autoreferenzialmente ritenuta tale, i centri di potere occulto, l’élite dei funzionari, si è molto speso per influenzare il risultato, millantando disastri epocali nel caso in cui la brexit avesse vinto, come poi è effettivamente accaduto.
Preliminarmente, occorre osservare, ancora una volta, come il cosiddetto Palazzo sia sempre più lontano dal percepire il reale pensiero del cittadino comune. Quello che vive e lavora lontano dal mondo dei privilegi e che, lungi dall’allinearsi a parole sempre più confuse, distanti e irreali dei governanti, percepisce come il proprio standard di vita vada esponenzialmente peggiorando di anno in anno, Quello che ha visto i prezzi delle cose passare dal valore di mille lire a quello di un euro, nell’arco di pochi giorni, grazie allo sciagurato tasso di conversione euro lira fissato a 1936,27, dal duo Ciampi e Prodi, che ha praticamente dimezzato il valore d’acquisto degli emolumenti stipendiali medi. A tale circostanza si associa la dissennata politica di austerity che l’Europa ha imposto, impedendo meccanismi di svalutazione monetaria e deprimendo così un’economia interna giunta al collasso. PIL ai minimi storici, disoccupazione prossima al 40 % nella fascia di popolazione tra i 25 e i 40 anni, compressione della libera impresa, distruzione dello stato sociale, stato di polizia fiscale; questo lo scenario di un’economia eterodiretta da parte di lontani e incapaci burocrati, guidati da persone mai sottoposte al vaglio di libere elezioni.
Fatto ancora più grave, c’è una certa area di pensiero che, giudicando azzardata la scelta del Premier inglese Cameron di indire il referendum e fare decidere al popolo il proprio destino, si rallegra perché in Italia l’art. 75 della Costituzione, al comma 2, impedisce che i cittadini possano esprimere la propria idea relativamente ai trattati internazionali. Del resto è la stessa area la quale ha sostenuto e sostiene che, in momenti di crisi e urgenza, non si possa perdere tempo a indire elezioni e conoscere l’opinione di un popolo, sovrano sì, ma non sempre e non troppo, a dispetto dell’art. 1 della Costituzione, per fortuna non ancora emendato da volenterose ministre di bella presenza.
In effetti, rammentandolo a qualche distratto, il principio di autodeterminazione dei popoli è una norma generale di diritto internazionale, che produce effetti giuridici su tutta la Comunità degli Stati ed è anche una norma di “ius cogens”, ovvero un diritto inderogabile e irrinunciabile. Nella Repubblica Italiana il principio di autodeterminazione viene ratificato dalla Legge 881/1977, che prevale su tutte le altre dell’Ordinamento Interno, principio asseverato anche dalla Suprema Corte di Cassazione con specifica sentenza del 21/3/1975.
Preso atto che i principi di democrazia e autodeterminazione dei popoli in Italia sono sostanzialmente negati, sempre per il bene del popolo stesso, che potrebbe pericolosamente dissentire dall’illuminata opinione dei propri bravi governanti pro-tempore, esaminiamo ora cosa dice l’art. 50 del Trattato di Lisbona. Esso prevede che “qualsiasi stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione Europea”. Questo sembra un bel principio di libertà, ma prima di felicitarsi, occorre tenere conto che il medesimo trattato dispone che “lo stato membro che decide di recedere, notifica tale intenzione al Consiglio Europeo, che negozia e conclude un accordo con tale stato sulle modalità e i tempi di recesso”. Si prospetta insomma, per la Gran Bretagna, un lungo limbo, anche per il fatto che l’esito della consultazione popolare deve essere recepito e messo in pratica da un Parlamento, pure esso molto distante dagli umori popolari e poco incline ad allontanarsi dai comodi privilegi che lo status quo garantisce alla casta.
Esistono quindi meccanismi ben precisi, a livello di singolo paese e dell’Unione Europea, che impediscono il libero dispiegarsi della volontà degli unici aventi diritto, i cittadini, che legittimamente dovrebbero potersi esprimere in maniera differente dai loro rappresentanti del momento. Principio ineccepibile che non riescono a comprendere i vari Monti, Napolitano e Renzi, i quali, a denti stretti, hanno sibilato che è molto pericoloso chiedere alla popolazione cosa ne pensa del proprio futuro e magari anche di quello dei propri figli e nipoti.
Cosa preoccupa realmente i lontani circoli di potere che ormai governano l’Unione Europea e non solo? Impensierisce che i popoli possano autodeterminarsi, che si sottraggano a una politica fiscale iniqua ed assurda, ad una progressiva diminuzione delle quote di libertà individuale a fronte di una sicurezza mai garantita e costantemente più utopica, ad una sempre più evidente perdita delle proprie radici culturali, sociali, etiche e religiose, in cambio di un multiculturalismo globale e multietnico obbiettivamente eccepibile. Disturba i manovratori, soprattutto, che la Gran Bretagna segni l’inizio di un processo che consenta il recupero di un’autodeterminazione cosciente e responsabile.
I segnali sono di solare evidenza. Il Gruppo di Visegrad, che annovera Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, è in aperto contrasto con le scelte politiche europee. Grecia, Portogallo, Irlanda e in parte Italia, sono state sottomesse con la forza ai diktat monetari del direttorio franco tedesco. In Francia e Olanda ci sono movimenti di opinione, ormai vasti, che reclamano un referendum analogo a quello recente inglese. La Svizzera ha ritirato la domanda di adesione. L’Austria, spaventata dalla fallimentare politica europea sui migranti ha, di fatto, interrotto Schengen e iniziato a costruire muri. Questi sono fatti, non certo opinione di pochi scellerati, derubricata a proteste fisiologiche di minoranze ignoranti, decerebrate e intolleranti.
L’idea di un’Europa unita, di un unico continente sotto identica bandiera, è stata ed è un’idea affascinante, che non può non essere condivisa da menti lungimiranti. Ciò che non piace è quanto realmente realizzato, è questa Europa, un’accozzaglia di norme liberticide, che hanno generato povertà crescente e consegnato i destini di milioni di persone a circoli elitari e illiberali. Questa Europa non può piacere, perché è stata resa un’area geografica mancante di una visione d’insieme, teoricamente ricchissima, ma senza corretti meccanismi di ridistribuzione del denaro, senza un esercito, una polizia e un’intelligence in comune, priva di una politica estera condivisa ed autorevole. Non sappiamo più chi siamo e dove stiamo andando, non abbiamo più una coscienza nazionale e quella europea è, a dire poco, cripticamente incomprensibile.
Tutto questo mentre il vecchio continente ha conflitti sanguinosi ai confini, ha al suo interno enclave che rifiutano ogni integrazione ed è circondato da milioni di diseredati, giovani, affamati e senza nulla da perdere, che ci stanno invadendo, mutando irreversibilmente le nostre città e il nostro modello di vita. In effetti, l’Europa è l’unico continente che sta pagando generosamente i propri invasori e si rallegra di tale fatto perché così, finalmente, invertirà il trend di denatalizzazione.
Forse la Gran Bretagna ci insegna che i cittadini sono spesso migliori dei propri governanti, sono oltre le loro inadeguatezze, al di là dei loro squallidi teatrini e questo è un dato oggettivo ed asettico, che induce quantomeno a non disperare e fare, ognuno di noi, tutti insieme, come una vera comunità, quanto possibile per realizzare un modello di vita diverso, per tornare a confidare in un futuro che può e deve essere migliore.