Dicono che il reddito di cittadinanza sarà subordinato, tra le altre cose, alla fornitura di prestazioni per servizi socialmente utili almeno per otto ore alla settimana. Una grande novità? Beh, a Terni accadde qualcosa di meglio 35 anni fa. I lavoratori della Sit stampaggio, finiti in cassa integrazione, dopo la chiusura della fabbrica si sentivano i vestiti stretti addosso, non ci stavano a considerarsi assistiti. Volevano in una qualche maniera fare un qualcosa per la comunità che stava facendolo per loro. Altro che otto ore settimanali! Per mesi lavorarono a ristrutturazioni di luoghi pubblici cittadini: dallo stadio ai parchi pubblici, certo sempre nella speranza che qualcosa accadesse, che nascesse qualche iniziativa, che si aprisse la possibilità di tornare al lavoro. La finalità della cassa integrazione guadagni, infatti, era proprio quella: non lasciare in mezzo ad una strada chi aveva perso il posto e nell’attesa che ne trovasse un altro.
Si fecero le cose per benino siglando un accordo formale tra amministrazione comunale ternana di allora, siamo all’inizio del 1983, e la federazione sindacale unitaria. “In un disegno di superamento dell’attuale momento in cui il ricorso alla cassa integrazione è massiccio a Terni – sosteneva un documento della commissione mista Comune sindacati – lo strumento della CIG può assolvere a una funzione positiva ma a condizione che sia finalizzato al risanamento e al rilancio produttivo delle aziende in difficoltà”.
Era un’esperienza nuova, che attirò l’interesse, su cui si accesero i riflettori della grande informazione italiana. Un’esperienza che per alcuni durò poco tempo perché riuscirono a trovare alla svelta una nuova occupazione, ma che per altri andò avanti per diverso tempo.
Ancor oggi, 35 anni anni dopo, si riuniscono una volta ogni tanto per stare insieme, quegli operai, quei tecnici che vissero l’amarezza della fine della fabbrica dello stampaggio, che scesero in lotta in piazza, che arrivarono ad appendere le 428 lettere di licenziamento all’albero di Natale alzato in piazza della Repubblica.
Oggi è l’occasione per una “rimpatriata”, per ricordare tanti episodi più o meno curiosi, più o meno divertenti, ma allora fu dura. “Trasferirono in quella nuova fabbrica chiamata Sit il reparto stampaggio delle acciaierie – ricorda Vincenzo Ceccarelli, uno dei quattrocento, il quale allora fu in prima fila nella lotta come sindacalista – D’altra parte quel reparto lo avrebbero chiuso, ma noi potevamo anche rifiutare di andarci a lavorare: potevamo restare in altri reparti delle acciaierie. Ma l’occasione era buona: una fabbrica nuova, posti di lavoro in più per tanti giovani”.
Erano i primi anni Settanta. “La fabbrica aprì il primo marzo 1973 – ricorda, preciso, Roberto Fiori, che aggiunge abbassando il tono della voce – E chiuse il 22 novembre 1982, alle 11 e 30 serrarono i cancelli e noi tutti fuori”.
“Brutto momento – commenta ricordando l’amarezza di allora Enzo Guidarelli – Non si vedeva una prospettiva”. Nemmeno dieci anni restò aperto lo stampaggio dal momento in cui fu rilevato da Bertoldo e Pianelli. Lavoravano per la Fiat. Di riconversione, di ammodernamento impianti, di investimenti non vollero nemmeno sentir parlare i due imprenditori piemontesi. La classica iniziativa industriale nata per sfruttare una situazione vantaggiosa. Poi va fino a quando va. E Terni, i lavoratori ternani seppero anche in quella difficoltà fornire una risposta dignitosa, di libertà, di coscienza civile, di solidarietà data e ricevuta. Altri tempi… Sembrano passati tre secoli, non trent’anni.