DI CENTRO STUDI MALFATTI
Tony Garnier nel 1904 inviò all’Ecole des Beaux Arts di Parigi il progetto di una città industriale, ispirata a quella descritta da Emile Zola in “Travail” pubblicato tre anni prima. Nei disegni di Garnier la città preesistente era appena un modesto villaggio, sulle colline c’erano gli ospedali, i sanatori e le dighe delle centrali idroelettriche, in basso lo stabilimento metallurgico da un lato e dall’altro, in un pianoro sopraelevato, le villette, le scuole e i quartieri residenziali e al centro i servizi collettivi e il municipio.
Una rappresentazione ideale che ricorda particolarmente la città di Temi, le sue acciaierie, i villaggi operai della zona di Campomicciolo, l’ospedale che in epoca recente è stato costruito sull’altura di Colle Obito.
In quella visione progettuale l’urbs, la città fisica, si legava alla città morale, alla civitas, assegnando a ogni cittadino una quota di conformistica felicità, in una forma di arte della città che intendeva agevolare la gestione dell’urbs e le differenze della civitas, esaltandole. Poi è arrivata una interpretazione contemporanea della città, ridotta a un cumulo di anarchici progetti urbani, che non dipendono più dalla volontà di assicurare un habitat armonico alla comunità ma dagli interessi speculativi degli imprenditori immobiliari, è iniziato un tempo in cui gli architetti sono autorizzati a progettare qualunque insieme di edifici e piazze del quale abbiano ottenuto un incarico professionale. Il risultato è davanti a noi, uno squallido fiorire di edifici residenziali alveare e centri commerciali, la maggior parte di questi ultimi già morti alla nascita a causa delle crisi economiche e del commercio elettronico.
In questo tempo di inspiegabile declino del pensiero urbanistico e quindi dell’urbanistica si inserisce bene quel progetto di ricostruire ex novo l’ospedale di Terni nel bel mezzo della umida pianura di Maratta, caldissima in estate, su un’area di esondazione, persino limitrofa al mortifero inceneritore, altra opera anacronistica la cui realizzazione è colpa (usiamo il termine appropriato) di una scellerata classe politica da seconda repubblica.
In pratica l’ospedale di Colle Obito secondo questo discutibile orientamento, ormai un po’ datato e bisognoso di costose manutenzioni, pensato nel 1951 dal presidente del vecchio ospedale dell’Annunziata, il democristiano Poliuto Chiappini, andrebbe semplicemente smantellato, anche perché oltre ad essere uno dei più anziani dell’Umbria si troverebbe lontano dalle principali vie di comunicazione.
Immaginate se in metropoli della dimensione di Roma o Milano si dovessero soffermare su certi pensierini da terza elementare, dovrebbero ricostruire tutti i nosocomi rispettivamente fuori dal raccordo anulare e dalla circonvallazione esterna. Senza contare che dallo svincolo di Ponte Le Cave al nostro ospedale ci sono soltanto circa 3 km stradali, una distanza da paesino di provincia.
La questione è particolarmente meritevole di riflessione, riflessione sulla capacità di queste classi politiche di progettare la città in cui viviamo, se pensiamo che da pochi anni in un’area limitrofa al nostro ospedale è stata realizzata una bella e costosa (una ventina di milioni di euro) sede della Facoltà di Medicina dell’Università di Perugia e un attrezzatissimo, seppure al momento inutilizzato, centro per le cellule staminali, che in caso di trasferimento della sede ospedaliera dovrebbero essere spostati, mentre a Colle Obito ci sono tutti gli spazi necessari per ampliare l’ospedale e adeguare strutturalmente l’esistente, realizzando finalmente la cittadella della salute, i suoi parcheggi interrati e, perché no, alloggi per la ricettività dei familiari dei pazienti che vengono da fuori regione. In quell’area potrebbe trovare nuova sede anche la sede della USL Umbria 2, che attualmente paga poco meno di un milione di euro di canone di locazione a una società privata per l’edificio di Viale Bramante.
Poi c’è la seconda ipotesi, presentata da poche settimane, quella che vedrebbe un nuovo ospedaletto, il diminutivo è d’obbligo nonostante i numeri sbandierati, realizzato a Colle Obito in project financing da una società privata, alla quale la comunità dovrebbe poi pagare l’affitto, senza contare che la finanza di progetto permetterebbe al partner privato di condizionare il bilancio del nuovo ospedale, in spregio del reale bisogno finanziario connesso con i servizi da fornire alle persone. Questo ulteriore passo verso la aziendalizzazione del servizio sanitario regionale, sancito dall’ingresso dei privati, che per definizione perseguono il profitto e non il bene comune, non agevolerà l’adeguamento dei livelli occupazionali nella sanità, costringendo il personale superstite a carichi di lavoro sempre più disumani.
Intanto una parte per fortuna marginale della città, quella più strettamente legata al mondo del calcio, si dibatte per concedere al presidente della locale squadra la possibilità di realizzare una clinica privata, senza la quale lo stesso non realizzerà il nuovo stadio. In questo contesto l’argomento a sostegno dei favorevoli sarebbe che Perugia ha cinque cliniche private e Terni nemmeno una … però Perugia si è dotata di un grande ospedale, molto grande, realizzato senza ricorrere ai privati, esperienza che si può ripetere anche a Terni, accendendo un mutuo e pagando i relativi interessi, che, credetemi, saranno un ben leggero prezzo da pagare rispetto a quanto potrebbe chiedere un partner privato, che non è minimamente interessato alla nostra salute, ma al profitto.
In proposito mi piace ricordare che quelli della prima Repubblica nel 1957 posero la prima pietra grazie a un fondo del Governo centrale per 703 milioni di lire, 50 milioni della Cassa di Risparmio di Terni e 227 milioni di mutuo a carico dell’amministrazione ospedaliera, garantiti dagli enti locali, e il Paese era appena uscito dalla guerra.
Ah, dimenticavo, nel programma triennale dei lavori pubblici della Regione Umbria 2021 – 2023, DGR n. 426 del 5/5/2021, dell’ospedale di Terni non c’è traccia, dei quasi 42 milioni di euro stanziati non un soldino sarà destinato a questa dibattuta opera pubblica.