DI RAFFAELLO FEDERIGHI
Il 19 gennaio del 2020 anno saranno venti anni che Bettino Craxi è morto ad Hammamet, in Tunisia, da esule per qualcuno, da latitante per altri. L’uscita nelle sale cinematografiche del pregevole film di Gianni Amelio, ma anche dell’ottimo libro di Marcello Sorgi “Presunto colpevole”, sono un’ottima occasione per inquadrare la complessa vicenda, umana, politica e giudiziaria di Bettino Craxi, uno dei non molti statisti che la politica italiana può annoverare.
Sotto il profilo umano, Craxi riparò in Tunisia, favorito dall’allora Presidente Zine Ben Ali, salito al potere con un colpo di stato nel novembre del 1987 e legittimato dal riconoscimento ufficiale anche del Governo Italiano (da lui presieduto), per sfuggire a prevedibili provvedimenti cautelari a seguito delle inchieste giudiziarie nelle quali era rimasto coinvolto. È bene rammentare che lo stesso non era stato ricandidato alle elezioni politiche del 1994, quindi senza alcuna tutela e privato del passaporto.
Fuggì quindi per non essere arrestato e rimase in Tunisia fino alla morte, poiché non gli fu concesso tornare in patria da uomo libero neanche per curare le gravi patologie dalle quali era afflitto (diabete, insufficienza cardiaca, cancro). Giova rammentare che il suo caso, analogamente a quello di Moro, è una delle rarissime circostanze in cui la Repubblica Italiana si mostrò intransigente, rifiutando qualsiasi negoziato o compromesso.
Politicamente, Craxi fu esponente di spicco del partito socialista del quale divenne segretario nazionale e poi Presidente del Consiglio dal 1983 al 1987, in uno dei governi più longevi della storia italiana. Lontano dalle origini e dai dogmi del marxismo (sostituì con il garofano la falce e il martello del simbolo socialista), portò il paese a una serie di risultati indiscutibili, tra i quali il posizionamento italiano come quinta potenza industriale, i riconoscimenti internazionali (fu Presidente del Consiglio Europeo), l’abbattimento dell’inflazione dal 12% al 5%, la crescita reale dei salari di due punti oltre il tasso d’inflazione. Di contro, il debito pubblico raddoppiò da 234 a 522 miliardi di euro al valore attuale e furono instaurati complessi rapporti di politica internazionale con movimenti di sinistra non del tutto ineccepibili, tra i quali l’OLP di Arafat, del quale fu amico personale e sostenitore. Da questi presupposti si generò la vicenda di Sigonella (ottobre 1985), in cui Craxi intervenne con decisione, come da carattere, facendo certamente rispettare la sovranità nazionale a fronte dell’azione disinvolta delle forze speciali americane, ma commettendo l’errore di favorire la fuga di uno dei presunti dirottatori del transatlantico italiano Achille Lauro.
Molti analisti politici ritengono che tali fatti determinarono l’insorgere di una sfiducia ed un risentimento da parte delle autorità americane nei confronti di Craxi ed il sospetto che esse intervennero nel corso dell’inchiesta “Mani Pulite” per fornire a Di Pietro informazioni fondamentali nel quadro di un “regime change” che, se vero, getterebbe ulteriori ombre sugli avvenimenti di quegli anni.
Di certo, sono, da più parti, apertamente sostenuti, i contatti tra il magistrato ed esponenti di spicco della diplomazia e dell’intelligence americana di quei tempi, tra i quali il console Peter Semler, il funzionario del Dipartimento di Stato Michael Leden (attivo anche nella vicenda Moro) e l’agente della CIA Stoltz.
Dietrologie a parte, non vi è dubbio che l’intromissione negli eventi politici interni di un paese sia una procedura americana quantomeno non episodica e che senza il concorso di fattori internazionali non si può destabilizzare un Paese, né azzerare una classe dirigente. Del resto, Reginald Bartholomew, ambasciatore americano, definì “Mani Pulite” come una sistematica violazione dei diritti della difesa, mentre Daniel Serwer, incaricato d’affari americano presso l’ambasciata a Roma, stigmatizzò il principale protagonista degli inquisitori come “un pupazzo nelle mani americane”.
Sarebbe quindi certamente miope considerare Mani Pulite una semplice inchiesta giudiziaria, poiché essa determinò la fine della cosiddetta prima repubblica e la crisi infinita che le istituzioni italiane affrontano, senza apparente esito, da oltre venti anni.
I costituenti italiani realizzarono una Costituzione, forse non la migliore del mondo, come alcuni erroneamente sostengono, ma nella quale, mediante pesi e contrappesi, i tre poteri dello stato (esecutivo, legislativo e giudiziario) erano in equilibrio tra loro e indotti a collaborare. Gli effetti dell’inchiesta di cui sopra concorsero alla scomparsa dei partiti politici tradizionali e con essi la necessaria selezione e messa in prova progressiva degli esponenti chiamati a ricoprire cariche istituzionali, ma soprattutto, a seguito dell’affievolimento dell’istituto dell’immunità politica, il dilagare del potere giudiziario, rimasto irresponsabile e senza controllo, votato all’interferenza verso gli altri due poteri, in un regime di autoreferenzialità.
Tale deriva è ritenuta impensabile e pericolosa anche da molti magistrati, certamente dalla maggioranza di loro non faziosa, non politicizzata e non intenzionata a sostituire il sistema democratico con una paurosa magistrocrazia giacobina e illiberale, vagheggiata purtroppo da inconsulti esponenti di frange politiche che si ripresentano ricorrentemente, ogni volta mascherati in maniera diversa, ma per fortuna sempre riconoscibili.
In conclusione, qual è la lezione che la tragica vicenda di Bettino Craxi ci dovrebbe insegnare? Certamente che l’avversario politico non è un nemico da abbattere anche utilizzando metodi giudiziari (pratica ricorrente negli ultimi anni, vedi Andreotti, Berlusconi, Renzi, Salvini, ecc.), bensì qualcuno che ha idee diverse che vanno confutate civilmente, nelle opportune sedi e sottoposte, sempre e comunque, al vaglio del giudizio popolare. Indubbiamente, la politica e con essa la democrazia, ha dei costi e se non si desidera che sia opportunità riservata ai più abbienti o sottomessa ai flussi finanziari di potentati nazionali o stranieri, occorre trovare metodi di finanziamento legali e controllabili.
Nel corso di quegli anni tumultuosi, l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso presentò un decreto legge che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, ma il Presidente della Repubblica Scalfaro (un ex magistrato), per la prima volta nella storia della repubblica, si rifiutò di firmarlo, considerandolo incostituzionale. Forse quella è stata l’ultima occasione per sanare e poi risolvere diversamente un problema, che è e rimane politico, mediante un atto politico e non consegnandolo al tritacarne giudiziario.
Rimangono profetiche le parole di Bettino Craxi, nell’ultimo discorso in Parlamento (29/4/1993), nel quale affermò che il ricorso a sistemi di finanziamento irregolari o illegali era comune a tutti i partiti e se esso veniva considerato una pratica criminale, allora il sistema stesso diventava criminale. Chiunque avesse negato tale fatto, presto o tardi, si sarebbe dimostrato spergiuro.
Mi auguro che qualcuno rifletta su tali avvenimenti apportando finalmente i necessari correttivi, per parte mia, come cittadino italiano, molto lontano dall’idea socialista, che comunque profondamente rispetto, continuo a considerare Bettino Craxi un importante uomo politico della storia repubblicana, certamente un gigante a confronto dei molti nani e inetti che calcano la scena attuale delle istituzioni italiane, delle quali ho a cuore, da sempre, le sorti.