Di Chiara Furiani
83 anni e non sentirli. Herbie Hancock sfoggia una forma fisica e una vitalità invidiabili per uno della sua età.
Si alza più volte dal pianoforte, scherza, interloquisce col pubblico, lo fomenta, sembra animato da un demone o appena uscito dalla piscina di “Cocoon”.
Ma soprattutto Hancock suona ancora che è una meraviglia e anima un concerto che, per una sera, giustifica la denominazione di questo festival: con lui torna di casa il Jazz a Perugia, torna quello con l’iniziale maiuscola.
Il nostro è stato spesso e volentieri da queste parti, ma forse non è mai stato così in forma come stavolta, almeno negli ultimi anni.
Hancock ottantatreenne, dopo tanti esperimenti, sembra tornato alle origini, a un sound ruvido, essenziale, dark ma pure raffinato allo stesso tempo, quello della golden age del jazz; al netto di alcuni tentativi proposti anche a Perugia che spesso viravano al pop e che avevano convinto meno del solito.
Invece niente è fuori posto di questa serata, persino quando a un certo punto Hancock si mette a giocare col vocoder per un lungo interludio.
Con la classica voce metallica che ne esce commenta la situazione improvvisando frasi nonsense su linee vocali bellissime e complessissime – e per un attimo sembra uno dei Daft Punk improvvisamente convertitosi al jazz sulla Via di Damasco anzichè un pianista che ha scritto alcune tra le pagine più belle della musica afro-americana.
Pubblico in delirio, tra risa e applausi.
Neanche un attimo di cedimento, un calo di tensione, per un concerto ad alto tasso di adrenalina, caratterizzato da quel blend di jazz, funky e fusion di cui Hancock ha fatto la sua cifra stilistica.
Chissà se i tanto osannati, super-energetici – e decisamente più giovani – Snarky Puppy, in scena al Santa Giuliana il 12 luglio, riusciranno ad eguagliare gli stessi livelli di intensità.
Dopo una lunga ouverture, un medley che ha unito alcuni tra i suoi brani più conosciuti, Hancock ha infilato uno dopo l’altro una serie di colpi efficacissimi.
Commovente e sentito l’omaggio all’amico sassofonista Wayne Shorter, recentemente scomparso, altro protagonista imprescindibile dell’universo musicale black, anche lui spessissimo a Umbria Jazz: bellissima la versione di “Footprints”, tra i brani più noti di Shorter e vera pietra miliare del repertorio jazz.
Che dire poi della incredibile band, composta da pezzi da novanta.
Su tutti spicca il trombettista Terence Blanchard, anche lui più volte a Perugia, pure a capo di formazioni a suo nome.
Indimenticabili i suoi concerti di mezzanotte nel 1988, coadiuvato dal sassofonista Don Harrison.
Bei tempi quelli, in cui la notte di UJ era davvero piccola e si poteva fare l’alba girando tra un locale e l’altro, con almeno una decina di diversi concerti in programma – e che nomi!- illudendosi per una decina di giorni di essere a New York.
Per gli amanti del jazz duro e puro, per i nostalgici del festival che fu, il prossimo appuntamento imprescindibile è quello di martedì 11.
Al Santa Giuliana sarà la volta del pianista Brad Meldhau col suo trio, seguito dal quartetto del sassofonista Branford Marsalis.
Saranno scintille anche in quell’occasione, si spera.