Non capita tutti i giorni di vincere un concorso nazionale e di essere premiati nei bellissimi e austeri saloni del Quirinale, dalle mani dello stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Così è stato per la 19enne studentessa ternana, Claudia Mattei. Ciliegina sulla torta, premiata, l’8 marzo, giorno del suo compleanno. Un compleanno, dunque, per lei, indimenticabile.
Claudia Mattei frequenta la classe 3^ B del Liceo Classico “Tacito”, di Terni e ha partecipato , con un proprio elaborato, al concorso nazionale indetto dal Ministero dell’Università e della Ricerca, con l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica, , in occasione della giornata internazionale della Donna, sul tema, ” 1946-2016: verso la piena cittadinanza attiva. 70 anni dal voto delle donne”. Il concorso era rivolto a tutte le scuole di ogni ordine e grado.
I lavori, prodotti dalle scuole, sono stati selezionati da una commissione appositamente costituita presso la Direzione Generale per lo studente , l’integrazione e la Partecipazione del MIUR, che ha poi valutato e individuato le opere vincitrici.
Il saggio breve di Claudia Mattei è stato premiato con la seguente motivazione: ” il saggio, particolarmente apprezzato per l’eleganza stilistica, analizza il lungo percorso compiuto dalla donna per la conquista dei diritti. Dal mito , alla storia più recente, la scelta dei personaggi femminili, opportunamente richiamati, evidenzia una riflessione colta e matura sui temi indicati dal bando, denotando, altresì , una lettura critica della contemporaneità e delle sue derive valoriali. L’autrice elabora e offre la sua personale soluzione alle problematiche sollevate mediante un forte richiamo alle donne a riscoprire i valori identitari, che si fondano in quel passato e nella cui conoscenza possono trovarsi i presupposti per interpretare il presente e progettare il futuro”.
Al Quirinale, la Mattei era accompagnata dalla professoressa di Lettere, Giovanna Scuderi e dalla Preside, Roberta Bambini.
“Ero molto emozionata – ha detto Claudia Mattei – ma il Presidente Mattarella ci ha messo a nostro agio. Ho illustrato al Presidente anche i lavori che si sono piazzati al secondo e terzo posto e quelli che hanno avuto la menzione”.
Il premio, ricevuto dal Presidente Mattarella e dal ministro Stefania Giannini, consiste in una pergamena e in una medaglia della Presidenza della Repubblica.
Questo è il saggio breve elaborato dalla studentessa ternana.
FUORI DALLA CASA DI BAMBOLE: I SENTIERI DELL’EMANCIPAZIONE.
Forse erano passi incerti. Leggeri, senza dubbio. Probabilmente risuonavano dell’eco della vittoria, almeno una prima, importante vittoria. Era il 1946, e questo è difficile dimenticarlo. Una data pregna di aria elettrica, incisa a fuoco nella storia prima ancora che si potesse avere realmente coscienza di ciò che stava avvenendo, del fatto che, per tutti, quello era il giorno in cui si valicava il confine del futuro, in cui si decidevano le sorti di tutto quel che sarebbe stato. Decisioni nelle mani dei cittadini. Decisioni nelle mani delle donne. Donne che, quel 2 giugno, camminavano verso le urne portando sulle spalle il peso del silenzio e della speranza, del contegno modesto e fiero dei lavori svolti nell’ombra. Il peso di una coscienza critica conquistata a fatica al costo di secoli spesi ad arrancare nel marasma delle categorizzazioni fittizie, della forza mai riconosciuta perché non bruta, che tuttavia non pretende incensi al suo sacrificio, alla sua abnegazione.
Il 2 giugno del 1946 le donne votano e non sono le prime, non sono le ultime, e soprattutto non sono sole. Le donne d’Italia muovono i loro passi a testa alta fondendo insieme presente e passato, stringendo nel cuore le aspettative per un futuro che presenta di già tante battaglie da vincere. Camminano e sono madri, amiche, sorelle, e amanti. Sono lavoratrici instancabili, sono la fiamma che ha mantenuto in piedi la forza produttrice di un’Italia consumata da una guerra che le stava strappando via troppo, che la stava consumando fino all’anima. Sono le donne con la schiena china e il volto stanco dal lavoro, sono le donne che si fanno carico del pericolo sfidando le dogane per recapitare messaggi nei loro cesti del pranzo. Le donne che non lasciano la mano dei loro figli, che vogliono proteggerli da una guerra che non hanno chiesto. Sono le donne che camminano fieramente in avanti mentre l’ideologia fascista cerca di trattenerle indietro, a forza, nel quadro canonico del paternalismo istituzionale: donna moglie, al mondo per procreare, per mantenere la casa, la donna accessorio del fascista perfetto. Sono le nipoti delle suffragette, delle poesie della Plath, e dei romanzi della Woolfe, delle prime femministe decapitate in Francia, e sono le progenitrici del futuro femminismo, di quello nato in seno alle contestazioni degli anni settanta e delle redstockings americane, e del prodotto stravolto e contraddittorio del ventunesimo secolo. E camminano con loro. Con le veneri della preistoria, con Antigone che vuole decidere per sé, con Anna Kuliscioff, Simone de Beauvoir e Anna Maria Mozzoni. Camminano e non si fermano, e sono le donne angelicate e le streghe delle età medioevali, e gli “angeli del focolare” dell’inizio del novecento. Sono donne che vogliono entrare in un mondo che sanno appartenere loro di diritto, come gli uomini che hanno a fianco, poiché non può essere la differenza di un cromosoma a scrivere la storia di una repressione secolare. Quella di donne che sono ammaliatrici, pericolose, detentrici della sensibilità e della forza d’animo perfettamente in grado di sopperire a quella fisica, che fanno la vita e ne possono decidere i termini. Donne screditate e umiliate, donne come Aspasia, troppo libera e acculturata per non essere facile bersaglio dei detrattori di Pericle, o come quelle dell’Ecclesiazuse di Aristofane, accostate alla politica solo con la valenza di un paradosso satirico, suscitato dall’innegabilità di un’ottica maschilista che riconosceva nelle donne al governo il più infimo livello di degrado possibile.
L’evoluzione della donna nella sua coscienza e nel suo riconoscimento attraversa ogni epoca, incarnando in ciascuna una figura mitizzata, tuttavia mai svincolata dalla tradizionale ottica paternalistica occidentale, attuale oggi come secoli fa quanto i più arcaici postulati del mos maiorum romano, in cui l’idea di “famiglia matriarcale” si avvicina al vilipendio per uomini aggrappati alla propria posizione di comando con le unghie e con i denti, e con la cieca presunzione di chi è consapevole della debolezza dei propri argomenti e ne è annichilito. E così gli uomini si autodeterminano giudici della posizione femminile, come se davvero fosse mai spettato a loro decidere per chi, sulla carta , avrebbero dovuto proteggere, sempre in virtù delle proprie convinzioni.
È stato un cammino lungo, quello che ha portato a quel 2 giugno. Lungo e mai uniforme, costellato di stalli e di preconcetti sedimentati nel tempo, acquisiti in modo acritico poiché imposti dal lavorio continuo di una società il cui primario obiettivo era insegnare alle donne quale fosse il loro posto senza lasciar loro possibilità di scelta. Chi era diversa era una strega. Veniva bruciata, ostracizzata, subiva il castigo di un Dio che, nell’accezione cristiana, non nasce maschilista ma lo diventa quanto tale veste inizia a risultare una necessità per la sua rappresentanza, e che lascerebbe essere la donna sia madre della redenzione che incarnazione del peccato. E sembra impossibile poter dire di no di fronte a un mondo che non lascia nemmeno intuire alle donne cosa una coscienza possa essere, cosa loro possano essere oltre che madri della prole dei loro uomini, merce di scambio, oggetti di piacere o di elevazione spirituale, stigmatizzate in “donne angelicate” nemmeno definite come donne vere, ma solo come una serie di tratti stilizzati, sublimati. Perché tale differenziazione tra soggetti, che esulino dalla generalizzazione della categoria, avvenga, almeno sul piano letterario, occorre attendere Boccaccio con il Decameron prima e Tasso con la Gerusalemme Liberata poi, sebbene anche i loro personaggi, affascinanti e ben caratterizzati, spesso non offrano altro se non una tipizzazione più particolareggiata ed avanzata: Griselda, Ghismunda e Lisabetta, abneganti di fronte all’amore nelle sue più varie forme, fintanto che questo abbia per soggetto un uomo, Fiordaliso, la donna maliarda che inganna l’ingenuo giovane mercante; Clorinda che può essere forte solo al prezzo della sua femminilità, che riacquista nella morte, nella passione finale dello svelamento di sé, e Armida, la donna maga, strega, che inganna. Amanti, madri, streghe. Donne che sono donne e non possono essere altro. Non scienziate, non attrici, non artiste, come Margaret Keane, costretta a lasciare la firma del marito sui grandi occhi dei bambini che dipingeva, convinta che una donna non sarebbe andata da nessuna parte, fuorviata proprio dalle parole del compagno, credibili perché allineate al comune sentire degli anni sessanta dello scorso secolo.
Eppure qualcosa è cambiato, deve essere cambiato, e lo ha fatto nel diciannovesimo secolo, mentre i ruoli si esasperavano per coprire il loro impercettibile, graduale, corrosivo mutamento, gli uomini erano massacrati ed alienati dal proprio lavoro, e non potevano permettere che quel minimo di autorità venisse strappato loro. Le donne borghesi, quantomeno volendo attingere alle fonti letterarie, maturano una loro coscienza, trovano il tassello mancante: si ribellano alle loro vite monotone in un bovarismo dagli esiti drammatici, tentano di spezzare le catene di quel malessere interiore provocato dalle loro quattro mura che sanno di prigione e sono finalmente viste come tali, a quella sottile inquietudine, l’indizio dell’errore, tentano di spiccare il volo, spezzando le proprie ali come in Flaubert, o riuscendo a trovare la via di fuga come la protagonista di “in una casa di Bambola” di Ibsen, coraggiosa abbastanza da frantumare le illusorie imposizioni di una società proclamatasi legislatrice dei ruoli dei sessi per ritrovare una sua dignità, l’individualità che differenzia Nora da “una donna”, e dal ruolo che questa in quanto tale sarebbe ritenuta a ricoprire. “Purché ti sia tolta la bambola”, afferma lei, mentre Helmer la prega di restare. Ed è proprio qui che sta il problema: le donne con una coscienza sono donne che non vogliono essere bambole. Né giocattoli, né incubatrici, né concubine da collezionare, né balie, né cuoche, né manichini, né angeli o demoni, a meno che non siano loro stesse a decidere di esserlo, a decidere per sé. Dev’essere un concetto davvero spaventoso, per questa società. Un concetto sovversivo e velenoso, simile ad una carica esplosiva che ribolle inquieta sotto anni di una storia che sembra scolpita nella roccia.
Probabilmente è per questo che, a settant’anni da quella che dovrebbe essere stata la loro più grande vittoria, quel tanto agognato passo definitivo nel mondo dorato dell’emancipazione, le donne si ritrovano oggi come allora centro di polemiche aride e discussioni sterili, quelle portate avanti da chi, pur facendosi messaggero di una società incensata di modernità e progresso, per i suoi interessi deforma e stravolge i concetti, prende il “femminismo”, che già non dovrebbe avere più alcuna ragione di essere, lo smembra e lo colora del nero dell’orrore e del rosso del peccato, lo confeziona e lo serve al mondo in ascolto con la
forma di immagini frammentarie prive di coerenza, all’apparenza tinte di un entusiasmo, nel senso etimologico del termine, non dissimile da quello delle Baccanti di Euripide che soggiogate dalla selvaggia esplorazione della dissoluzione di sé si spingono di gran lunga oltre ogni limite etico, inframezzate dai seni scoperti e dagli occhi sgranati delle ragazze nelle piazze Russe che, viste così, sembrano proprio gridare “noi soppianteremo gli uomini e cambieremo l’ordine naturale del mondo.” Femminismo di consumo e di polemiche, ben lontano dal suo reale intento, che si riallaccia a quel cammino iniziato molto prima del 2 giugno 1946, e che passa per l’elezione di Nilde Jotti a presidente della Camera nel 1979, Anna Maria Maglio come questore a Terni, Ilda Boccassini procuratore a Milano, e Antonella Celletti primo pilota donna per l’Alitalia, come riportato da Eduardo Ambrosio su Altrevista. Un cammino fatto di conquiste che poco hanno a che fare con la sovversione, ma che hanno tutto a che fare con il tentativo di riabilitare un ordine naturale per troppo tempo comodamente dimenticato, foriero di un’equiparazione quantitativa che tiene conto delle differenze qualitative nella loro complementarietà: è inutile negare l’evidenza statistica quando si discute di molestie o crimini familiari, ed è inutile bendarsi gli occhi di fronte ad una parità che si realizza nelle presunte libertà di donne a cui è permesso lavorare, fare carriera, vestire nei modi più estrosi, ma che si scontra con le occhiate di biasimo, i comportamenti lascivi sul posto di lavoro, le molestie ed i ricatti sessuali, brutalizzati e normalizzati quasi come prassi, quasi come se fosse giusto e normale, perché una donna che pretende di fare strada sa che è questo ciò a cui deve andare incontro, e non vi è nulla di strano in questo, perché l’emancipazione non è lotta, ma concessione, perché in fondo è cambiato tutto, ma nulla è cambiato davvero. Non è cambiato quando gli uomini uccidono le donne che hanno giurato di proteggere perché si sentono minacciati dalla loro libertà, piccoli nel loro non riuscire ad imporsi come unico elemento di rilevanza nella vita delle compagne. Non lo è quando le giovani si convincono che sia giusto svendersi all’asta, e quando arrivano inconsciamente a pensare che non sia strano avere paura di uscire di casa da sole o prepararsi a scendere a compromessi, mentre i media ripetono fino all’ossessione che il movimento femminile va nella direzione sbagliata, è degenerato, fa invecchiare la specie e crescere male i suoi figli, crea confusione in questo mondo già così alla deriva ed è solo una pretesa, una mistificazione, lasciando gli ascoltatori senza vie di mezzo: bianco o nero, “donna in cucina” o “finto uomo in carriera.”
Il flusso della storia non si interrompe, corre impetuoso o non può arginare la sua deriva, spalleggiato dai fraintendimenti delle masse, dai falsi miti e dalle sovrastrutture di convinzioni secolari. Il 2016 segna i settant’anni da una conquista. Una conquista, tuttavia, non è un traguardo, e quest’ultimo, alla luce dei fatti, è avvolto dalla nebbia dei preconcetti e di una società che sembra perdere di vista i suoi valori, sostituendoli ogni giorno in maniera caleidoscopica, in maniera evidentemente contraddittoria. Non è solo agli uomini che vanno, tuttavia, mosse tali critiche: le donne di oggi dovrebbero riscoprire quello spirito combattivo che animò venne prima di loro, poiché è solo grazie alla dignitosa tenacia di chi lottò per loro che oggi possono condurre la propria vita con un tale tenore, forti di certezze che, per quanto spesso ipocrite e contraddittorie, esistono. Non è necessario snaturarsi né vendersi , negarsi né donarsi al migliore offerente poiché si è convinte di poterlo fare. Per progredire occorre riscoprirsi, stringere la propria femminilità tra le mani, nella sua accezione vera e semplice, svincolata dagli artifici dei secoli e da quelli di una modernità troppo dissoluta che come in ogni ambito grida alla degenerazione. Essere una donna è difficile, ma è qualcosa per cui vale la pena lottare. Qualcosa per cui vale la pena sovrapporre le proprie orme a quelle delle donne che, in quel 2 giugno , che sembra così lontano, pur senza esserlo per nulla, per riallacciarsi ad un cammino di cui essere fiere, e su cui si possa fieramente ritrovare la propria identità, sole con la propria coscienza, senza necessità di alcun riconoscimento che non sia proveniente dalla propria voce di donna.
CLAUDIA MATTEI