Di Chiara Furiani
Un viaggio sentimentale tra grandi successi del passato, più o meno remoto.
E Barbarossa a fare da traghettatore, un evergreen lui stesso, con quella faccia da eterno ragazzo, quel sorriso accogliente e irresistibile stampato in volto e il jeans d’ordinanza.
E’ un excursus pieno di momenti davvero significativi, di “ripescaggi” spesso dal dimenticatoio in cui certi capolavori sono ingiustamente precipitati.
Chi aveva già le orecchie per intendere negli anni ’70 – me compresa – avrà avuto un sobbalzo quando Barbarossa ha intonato “Vincent”, la stupenda e malinconica ballad dedicata a Van Gogh di Don McLean, tra i tanti menestrelli folk di quegli anni, forse quello più offuscato dall’oblio.
Brano che anche in Italia ebbe il suo momento di notorietà in quanto sigla finale di un famoso sceneggiato – così si chiamavano allora le fiction – di quegli anni.
Il recital che Barbarossa ha portato ieri sera a Terni prende il via da un libro, “Cento Storie per Cento Canzoni”, che il cantante ha voluto dedicare ai brani che lo hanno segnato.
Un percorso apparentemente casuale, visto che i salti temporali e stilistici sono notevoli.
Da “Strange Fruit” di Billie Holiday a “L’abbigliamento di un fuochista” di De Gregori il passo è veramente lungo, la distanza siderale.
Ma nel discorso di Barbarossa c’è qualcosa che lega anche i poli che appaiono più distanti.
Sullo schermo che fa da sfondo al recital scorrono immagini che contestualizzano i brani e un filo rosso allora appare chiaro.
Sono anche le canzoni a fare la storia, e, per esteso, è anche la bellezza che può aiutarci a diventare migliori.
Come individui almeno, ma anche come società.
Quel brano, “Strange Fruit”, che racconta il linciaggio dei neri americani impiccati agli alberi dai suprematisti bianchi, Billie Holiday ebbe il coraggio di interpretarlo di fronte a un’audience total white.
Poco a poco si levarono gli applausi.
Siamo di fronte a un baratro, è evidente.
Non saranno certo le canzoni da sole, nè l’arte a salvarci. Sarebbe pretendere troppo.
Ma saranno l’arte e la bellezza a ricordarci chi siamo e cosa possiamo essere. Pensiamoci ogni tanto.
I capolavori prodotti dall’umanità nel corso dei secoli, le poesie di Leopardi, i quadri di Van Gogh e Dalì, la Cappella Sistina di Michelangelo, le canzoni di Bob Dylan e dei Beatles…ecco, facciamone come una capsula temporale, quella si, da spedire su Marte.
Scorrono le immagini di Woodstock mentre Luca Barbarossa canta “Blowing in the wind” e si vede Joe Cocker che canta “With a little help from my friends”, l’elogio del pensiero solidale per eccellenza.
C’è stato un tempo in cui il mondo pareva aver imboccato “l’age of Aquarius” e oggi sembra passato remoto, lontano anni luce.
La strada non è necessariamente segnata, sta a noi decidere quale direzione prendere.
Grazie a Luca Barbarossa per avercelo ricordato.
Coi suoi modi felpati, il suo incedere gentile ed elegante, il suo umorismo, la totale assenza di retorica – vivaddio – e la sua bella voce impeccabile.
E grazie a Michele Rossi e Amelia Milardi che continuano a crederci, che questa nostra città così martoriata possa risorgere dalle sue ceneri come un’araba fenice.