Tutto parte da due professionisti, un po’ scanzonati, ma molto, molto apprezzati. Due professionisti narnesi, un ingegnere ed un architetto, e tanto vale dire subito i loro nomi, Mauro Fabbri e Sandro Di Mattia, che si dedicavano alla ristrutturazione ed anche all’ampliamento di Mirabilandia, il megaparco giochi vicino a Cesena e la cui ruota si vede anche dall’Autostrada. Si creò nel tempo una vera e propria amicizia tra il gestore/proprietario di Mirabilandia e i due tecnici, che avevano lo studio in un capannone a Narni Scalo, vicino alla ferrovia. Capitò che quell’imprenditore del nord, Giancarlo Casoli, così si chiamava, venne a trovare, in un suo viaggio a Roma, i due amici nel loro studio. Tra discorsi importanti ed altri futili, Casoli si affacciò da una finestra e disse “Quello sì che sarebbe un bello spazio per impiantarci una Mirabilandia del Centro Italia”. Senza saperlo aveva indicato la Spea e la sua area, fatta di ottanta ettari superbamente infrastrutturati, vicino a strade e ferrovie, proprio sotto ad una città medievale, che poteva diventare essa stessa una location perfetta.
Non è ben chiaro, ma conoscendo i professionisti le certezze sono molto più forti, se proprio loro avessero “costretto” Casoli a guardare dove volevano. Comunque sia, il risultato non cambiò. E l’interesse per la Spea, sino ad allora sonnacchiosa ed abbandonata area di proprietà dello Stato, si impennò di colpo.
Prigionieri alla Spea?
Vale la pena ricordare ancora una volta che cosa significhi Spea, l’area che avrebbe dovuto ospitare la nuova Mirabilandia: Società Polveri E Affini, uno stabilimento di guerra, dove la Società Terni costruiva polveri da sparo per la Marina Militare italiana, polveri che entravano nei proiettili che dalla acciaieria, uscivano in grande quantità. A dire la verità a poco servirono perché la Marina italiana, dopo la scoppola da parte degli inglesi con l’incursione di Taranto e l’altra di Capo Matapan, nel lembo sud del Peloponneso, nel 1941, si ritirò in buon ordine a La Spezia e non sparò più, o quasi, nemmeno un colpo. Ma questo si è saputo solo a guerra finita. A guerra finita, giustappunto, all’interno della Spea venne realizzato un campo di concentramento che ha avuto contorni molto misteriosi: l’unica cosa che è rimasta, insieme ad uno sbiaditissimo ricordo da parte dei narnesi, una serie di graffiti, realizzati sui muri dai prigionieri che, si pensa, siano stati tedeschi sbandati e rastrellati. Soldati? Ma non è per niente detto perché s’è avanzata anche l’ipotesi che gli “ospiti” fossero, ma è solo un’ipotesi, sempre tedeschi, ma quelli con le mostrine delle “SS”, che stavano fuggendo verso il Sud America: l’unica cosa certa è che i graffiti lasciati da questi inclassificabili “visitatori”, sono pregevoli. E siccome sono stati interessati diversi bunker, il numero degli “ospiti” potrebbe anche essere stato di qualche migliaio di persone. L’ipotesi di un posto di raggruppamento di coloro che fuggivano dalla giustizia è suffragata dai calendari, che gli ospiti della Spea avevano inciso sul muro e dove si vede chiaramente che il soggiorno si riferisce agli ultimi anni del 1945 sino a febbraio dell’anno successivo, quando la guerra era conclusa, quando ufficialmente i campi di prigionia in Italia erano stati chiusi e quando la grande fuga dei gerarchi verso Brasile ed Argentina, sotto il nome in codice di Odessa, era nel suo pieno fulgore. Che sia stato qualcosa di segreto è dato anche dal fatto che i narnesi non ne hanno memoria: migliaia di persone sarebbero rimaste negli occhi e nei ricordi.
Alla Spea lavoro femminile
Migliaia di narnesi lavorarono nello stabilimento della Spea, che poteva/doveva diventare Mirabilandia Due, durante il conflitto mondiale, sino al 1943, tantissime donne per i lavori impiegatizi e quelli dei controlli chimici delle polveri, nei laboratori: il personale operaio venne reclutato tra le persone anziane o invalide perché gli altri o erano sui fronti di guerra o si erano “imboscati” nelle fabbriche militarizzate del territorio.
La Spea venne abbandonata, a guerra finita, come ogni stabilimento votato alla produzione bellica, senza nemmeno pensare un solo momento ad una sua riconversione, che poteva anche essere chimica o chissà cosa altro: ma anche quella, a ben vedere, è stata un’occasione mancata dalla città. In moltissimi altri territori l’attenzione dello Stato sul continuamento delle fabbriche di guerra è stata molto più pregnante ma forse solo perché spinti da amministrazioni locali che sapevano fare il loro “mestiere”. Invece la Spea di Narni Scalo venne marginalizzata, dimenticata.
Insomma, lo stabilimento era guardato con interesse solo dallo Stato Maggiore dell’Esercito americano di stanza in Europa, a Wiesbaden, che se ne appropriò, secondo le regole di guerra: un capitolo opportuno si ritrova negli allegati del Trattato di pace che il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi firmò a Parigi nel 1947: loro lo volevano, eccome. Le linee di montaggio dello stabilimento delle polveri erano moderne e sembravano fatte apposta per l’idea strategica che si erano fatta gli americani nel presidiare il Vecchio Continente, insieme alla Nato, e fronteggiare l’Unione Sovietica. La “Guerra fredda” era imperante e quella “calda” poteva esplodere in qualsiasi momento. Le linee dovevano essere in grado di sfornare polvere da sparo in una giornata, una volta che la materia prima fosse inserita nei grandi silos: per fare questo lo stabilimento doveva funzionare a “vuoto”, pronto ad accogliere, oltre a nitrato e cellulosa, anche il personale.
Continua la storia della Spea
Un distaccamento della Marina Militare, per ordine dell’esercito Usa, tenne la Spea in funzione davvero: tutti i giorni, un sottotenente di vascello, insieme ad un piccolo manipolo di marinai, che mai si sarebbero sognati di fare il servizio militare in un punto d’Italia lontano dal mare, mettevano in moto tutti i motori, provavano tutte le apparecchiature elettriche, stilando precisi report di funzionamento, da inviare in Germania. Era il loro compito e se qualcosa non avesse funzionato, sarebbe entrato subito una ditta di manutenzione per riparare qualsiasi guasto: doveva funzionare in un giorno!
Poi però chissà perché l’Esercito americano vendette le linee, nei primi anni Ottanta, ad una società turca, che si portò via i macchinari e della Spea rimasero solo i capannoni sempre più cadenti, pieni di coperture di amianto, come sono oggi. Senza dimenticare i tantissimi bunker sotterranei, dove si immagazzinava la polvere da sparo e che dovevano sfuggire, come in effetti è accaduto, agli aerei americani che bombardavano l’Italia: nemmeno una bomba colpì la Spea mentre moltissime caddero sul Ponte della Tiberina, distruggendolo così come era accaduto a quello medievale: per andare alla stazione e viceversa gli abitanti di Narni dovevano percorrere una passerella pericolosissima, che una volta crollò e nel crollo ci furono feriti. Rimasero alla fine una settantina di ettari di terreno all’interno dei quali si sono viste specie arboree che hanno iniziato una certa “mutazione” per il fatto che nessuno vi era più entrato e le aveva disturbate. Le idee per un riutilizzo intanto fioccavano, qualcuna sensata, (“Acquistiamola per dividerla in lotti e darla alle piccole aziende”), insieme ad altre strampalate, (“Facciamoci un grande orto per verdure specializzate”).
La grande speranza.
Un parco giochi, come Mirabilandia: che idea! Ruote giganti, scivoli nell’acqua, presente all’interno della Spea, ambientazioni di tutti i tipi, ristoranti, alberghi, posti di lavoro, tanti posti di lavoro. Ed era il giusto progetto per far rinascere quel luogo di guerra, di morte e farlo ritornare a nuova vita. Si pensò anche nei primi momenti di coinvolgere l’Ente Corsa all’Anello, per mettere in scena una manifestazione in costume, tutte le settimane, a beneficio dei turisti. A pagamento. «Lì, proprio lì» disse Casoli.
Iniziarono così le trattative tra proprietà e Comune di Narni. A memoria d’uomo forse il solo Conte Marzotto fu trattato peggio. Il nobile veneto non riuscì nemmeno a parlare col Sindaco; Casoli venne a Narni ebbe occasione di farsi ascoltare dalla Giunta, discusse, parlò, spiegò, fece vedere plastici, disegni, piani finanziari. Non convinse nessuno, per meglio dire, non convinse il solo sindaco Luigi Annesi e la sua Giunta, entourage compreso; ancora oggi non è chiaro il motivo di tanto ostracismo. Per la verità, gli unici a non capire furono solo i politici (il sindaco era Annesi e gli assessori Andrea Proietti, Stefano Bigaroni, Daniele Latini, Gianfranco Mancini ed altri), mentre l’idea aveva convinto tutta la Conca Ternana, che aspettava con ansia una svolta occupazionale senza precedenti.
Perché nel piano presentato, i posti di lavoro erano circa un migliaio da aggiungere a quelli che sarebbero stati indotti da una attività così variegata: gli studi della Società Autostrade prevedevano l’allargamento del casello di Orte per accogliere le migliaia di vacanzieri che la Mirabilandia narnese avrebbe richiamato dalla Capitale ed evitare le già lunghe code che si verificavano. E vennero a prendere informazioni in Comune per capire i tempi.
Si stringe. Anzi, no!
Un’occasione così non si sarebbe mai potuta ripresentare: praticamente tutti i politici ricevettero telefonate da conoscenti per una raccomandazione, per essere assunti nella nuova Mirabilandia, perché i posti di lavoro erano tanti, tanti quanti quelli che il lavoro lo cercavano, perché l’opportunità era incredibile e perché nessuno pensava che le sarebbero stati messi bastoni tra le ruote. Il Comune, intanto, sindaco Annesi in testa, si era messo di buzzo buono nel fare le pulci alla proposta, piani finanziari, previsioni; tutto era negativo, tutto era contrario. Un approfondimento così non s’era mai visto anche quando sarebbe stato necessario, come alla Bosco, tanto per dire, dove sono stati inghiottiti inutilmente miliardi di vecchie lire senza che nessuno fiatasse. E se la maggioranza divenne granitica nell’opporsi, quelli della minoranza convocarono assemblee, consigli comunali aperti perché si andasse avanti. Ci furono anche cittadini non organizzati che raccolsero firme, suppliche: non ci fu niente da fare. No, no e poi no!
Una spiegazione, solo un tentativo, va da sé: il problema era solo psicologico perché l’idea non era stata pensata nel palazzo comunale, perché era venuta da fuori. Ma anche pratico perché non si si sarebbe potuto, come sempre è stato fatto a Narni, controllare le assunzioni. E i voti conseguenti. E poi Casoli era un campione del liberismo, del divertimento, uno che chiedeva anche collaborazione, ed aiuti economici, al comune ed alla regione: lui voleva fare i suoi, legittimi, interessi, che però coincidevano con quelli della comunità.
Ma chissà cosa sarà scattato dentro la testa degli amministratori: poi, qualcuno di loro, qualche assessore del momento, avrebbe detto che, sotto sotto, era d’accordo, anche se aveva evitato scrupolosamente di abbandonare l’incarico, le sedie e gli stipendi da amministratore per dimostrare il proprio dissenso, cosa che avrebbe dato molta forza alla proposta. D’altra parte, lo stipendio loro ce lo avevano in tasca perché rinunciarvi? Comunque, ad anni di distanza, escludendo categoricamente sospetti di varia natura, rimane solo la pista psicologica, l’unica percorribile. Se ce ne fossero altre sarebbe bello conoscerle.
Mirabilandia? A Valmontone!
Ancora avanti: Casoli tentò di ritornare alla carica, a rispiegare la sua versione di Mirabilandia. Non ci fu niente da fare. Il muro di gomma scese incredibilmente su tutto il progetto. Non è ben chiaro se sia stato lo stesso Casoli ma il giorno dopo il rifiuto narnese, il Comune di Valmontone, sotto Roma, venne interessato per la realizzazione di un mega parco, Rainbow MagicLand, che ad oggi, di dimensioni leggermente più piccole della Mirabilandia narnese, funziona correttamente, dando lavoro, molto, e divertimento. Non serve nemmeno dire che a Valmontone quella Giunta Comunale stese i tappeti rossi davanti a chi prometteva occupazione in quantità. Promesse che sono state puntualmente mantenute.
E la Spea? È rimasta così, incolta, dominata da una mandria di vacche, che l’assegnatario dell’asta per lo sfalcio dell’erba ha, intelligentemente, posizionato dentro il recinto. Loro se la godono beate. E se la gode anche l’imprenditore che con una fava ha preso due piccioni: l’erba è bassa e la carne squisita.
Chi ci ha rimesso, alla fine della fiera? L’imprenditore romagnolo, ammesso che sia stato davvero lui, ha realizzato comunque un parco giochi, facendo esperienza nelle trattative coi comuni; colui che deve fare lo sfalcio dell’erba lo sta realizzando senza fatica, come s’è detto; i politici locali hanno continuato a fare carriera senza interruzione, anzi passando anche di livello, raccogliendo messe di voti pure da coloro che non avevano un lavoro e che potevano trovarlo con Mirabilandia Due. E i disoccupati sono rimasti ancora disoccupati…Chi ci ha rimesso, allora? Non è difficile comprenderlo!
P.s.: Una considerazione personale rivolta a chi era sembrata fantasiosa e campata in aria la storia del Conte Marzotto e della sua voglia di impiantare una fabbrica a Narni: spero si sia ricreduto, almeno in parte, con le vicende di Mirabilandia. All’inizio di questo secolo, dopo cinquant’anni, s’è ripresentata la stessa situazione. E gli amministratori non sono stati più lungimiranti. Perché? Erano della stessa pasta!