La storia del castello di San Girolamo rassomiglia alla favola di Hans Christian Andersen, quella che parla della dabbenaggine di un papà che andò al mercato con un cavallo e, dopo una serie di compravendite scellerate, rientrò a casa con un sacchetto di mele marce. Beh, sì, si attaglia proprio alla favola. Tutto parte dall’Azienda Elettrica Comunale di Narni, che forniva energia a ben ottomila utenze, alcune industrie di grande importanza, una gallina dalle uova d’oro: il comune ci ripianava tutti i bilanci. Si arrivò alla metà degli Anni Settanta quando scattò la necessità di migliorare tecnicamente l’Azienda stessa, un obbligo per rispettare normative sempre più stringenti. In agguato c’era l’Enel, che andava a caccia di queste realtà per completare la nazionalizzazione messa in piedi dal socialista Riccardo Lombardi. L’acquistò per duecentocinquanta milioni di lire, una bella cifra per l’epoca.
Era il 1974. Nella poltrona di sindaco sedeva l’entusiasta Giacomo Di Fino, comunista sino al midollo. Pensava che con quei soldi ci si potesse costruire la tanto agognata piscina per i narnesi, all’interno del parco del san Girolamo, per decenni seminario gestito dall’Ordine dei Missionari del Sacro Cuore, che raccoglieva studenti da tutt’Italia: ci venne anche Rino Gaetano. I religiosi, in calo di vocazioni, volevano andarsene da Narni e misero tutto in vendita. Nel contempo, al San Girolamo si interessò la società dei Cavalieri-Hilton, la più grande azienda alberghiera del mondo: l’idea era quella di farci una dependance di lusso dell’albergo di Roma. C’era chi obiettò come davanti ci fossero due fabbriche, sporche e puzzolenti: “Che importa: i clienti li faremo guardare da un’altra parte. Narni è bella e basta questo”. L’esponente dell’Hilton era Angelo Bassitto, un professionista molto stimato; portò avanti la trattativa e sembrava l’avesse addirittura spuntata. Poi però il senso antiamericano del comunista Di Fino ebbe la meglio e tornò alla carica: “Un albergo americano a cinque stelle a Narni? Meglio, molto meglio un hostello popolare”. I frati allargarono le braccia e pensarono alla trattiva complicata che l’avrebbe attesi con gli americani rispetto a quell’altra semplice con il Comune di Narni. Guardarono l’assegno dell’Enel e dissero “Ve lo vendiamo per duecentocinquanta milioni di lire”. Stecca pari, si dice a Roma. Di Fino lasciò l’assegno sul tavolo santificato dei frati, contento di non averci fatto alcuna aggiunta, e tornò a Narni con le chiavi del grande complesso. Il sindaco, senza aspettare autorizzazioni, mica ne aveva bisogno, le rilasciava lui, iniziò i lavori della piscina, occupando quello che al tempo era stato un campetto di calcio del collegio. Non si videro mai lavori più rabberciati di quelli, veloci, approssimati, senza senso e prospettiva, senza programmazione. Però all’inizio dell’estate la piscina venne davvero inaugurata. In verità era bellissima, anzi bellissime, perché nel complesso ce ne erano ben tre, a seconda dell’età. Un successo: la folla che premeva agli ingressi era strabocchevole. Nessuno ne sapeva niente di piscine e della loro conduzione, in Comune men che meno. Fatto sta non ci fu nessun obbligo per la cuffia e nemmeno il divieto di mangiare all’interno della vasca; i capelli di centinaia di bagnanti, il resto dei cibi otturarono i filtri, otturano gli irrogatori del cloro e, ad una ispezione da parte della Asl dell’epoca, ci si accorse che quelle vasche erano incubatoi di salmonella. Venne chiusa immediatamente e gli operatori andarono a fare formazione alla piscina del Cda di Terni. Poi furono messe in atto ogni misura di prevenzione.
E il castello? Diventò per qualche settimana, sei anni dopo, davvero un ostello: arrivarono, nell’agosto del 1980, dalle parti di Danzica un gruppetto di giovani polacchi per un programma di scambio culturale. Vennero ospitati proprio lì. Un mese dopo se ne andarono lasciando un deserto di rovine: da allora nessuno pensò più a quella balzana idea del Sindaco Di Fino e della sua Giunta. La piscina continuò a funzionare: ma la costruzione era stata così avventata che ogni anno era una battaglia poterla riaprire. Niente era ispezionabile, piastrelle che saltavano, costi dell’energia alle stelle e pensare che solo qualche tempo prima il Comune la corrente la vendeva: ora la ricomprava a caro prezzo, un po’ come Gasperino il Carbonaro ne Il Marchese del Grillo. Il castello intanto decadeva: qualche mese ospitò la sezione di una scuola materna, poi anche la redazione di una radio privata. Ma tutto finì lì. La decadenza iniziò sovrana, tutto finì a pezzi come adesso.
E la morale della favola di Andersen si avverò sino in fondo: da una gallina dalle uova d’oro il comune era passato al possesso di un rudere costosissimo. A salvare almeno in parte la vicenda ci fu, ma quaranta anni dopo, la vendita ad una società immobiliare ad un prezzo ben maggiore del suo valore di mercato, vendita che attirò le attenzioni della magistratura con provvedimenti giudiziari ed anche il sequestro del castello. Il comune ovviamente non ha più l’azienda e nemmeno il San Girolamo: quei soldi servirono a tappare i buchi di bilancio della amministrazione Bigaroni, una pezza senza nessuna opera pubblica che sia rimasta. Ora il castello è a terra ed il futuro è davvero micragnoso.