Il dibattito sul futuro del Teatro Verdi di Terni si arricchisce di un contributo, quello dell’architetto Danilo Pirro che ha fatto una sua ricerca presso l’archivio Poletti dalla quale si evince che ci sono pochissimi disegni del teatro ternano , ciò renderebbe impossibile progettarne una sua fedele replica.
L’INTERVENTO DELL’ARCHITETTO PIRRO
Una mia recente ricognizione all’archivio Poletti di Modena, mi ha fatto constatare che ben pochi sono i disegni del teatro Verdi superstiti, e in quello principale del prospetto non esiste nemmeno la corrispondenza con quello effettivamente costruito. Questo apre a delle domande sulla possibilità di replicare il teatro ottocentesco.
Questo salverebbe anche la stessa dignità dell’architetto Poletti, che rischierebbe di vedere resuscitata un’opera non sua con un’anima in cemento armato e qualche arco posticcio.
E’ un po’ come si tentasse di ricostruire una poesia di Leopardi, introducendo probabili frasi dove sono presenti gigantesche lacune, spacciando poi la poesia per l’opera del poeta di Recanati.
L’idea però dei cultori del bello , ovvero di un teatro “classico” o simile, va in segno opposto ad un concetto di architettura come disciplina scientifica, ed etica, iniziata cento anni fa nella più importante scuola d’architettura occidentale: la Bauhuas.
Il contenitore di spettacoli ovvero il teatro, non è a sua volta una scenografia, non possiamo pretendere di scegliere un contenitore “bello”, attingendo ad un “catalogo di bellezze architettoniche” che appartengono ad una cultura del passato. A questo punto se Poletti, non è percorribile, potremmo forse scegliere un Palladio, uno Schinkel o altro cultore del classico?
Lo stesso Poletti fu poi “più moderno del polettiani nostrani”, quando realizzò il teatro di Fano, “tralasciò” il fatto, che stava intervenendo nel vecchio edificio del Podestà, e realizzò al suo interno il teatro Neoclassico. Tant’è che il teatro della Fortuna di Fano, appare con una bella facciata gotica, quanto restava appunto del vecchio edificio medievale.
Vi è poi il grido di dolore di chi urla: ” perché Rimini?, Venezia? e a Terni no……?! Bisogna dire però che al netto della differenza di offerta culturale di queste città e Terni, certificata di recente anche dal rapporto del Sole24h sulla qualità di vita nelle città italiane, che la ricostruzione della “Fenice” ha creato non pochi dubbi nel mondo scientifico dell’architettura. Parlo di mondo scientifico per distinguerlo dai “cultori del bello ad ogni costo”, che ricordano tanto da quelli che ammiravano gli interni barocchi del transatlantico REX e pretendevano “la moderna” velocità del nuovo piroscafo.
Per fare un po’ di storia, sulla ricostruzione del teatro della città lagunare, l’architetto Paolo Portoghesi, storico dell’architettura, spesso critico dei “moderni” disse:
Ricostruire il Teatro La Fenice ”com’era, dov’era”? Dove era, certo, ma come era, no. La considero un’assurdità. Si convaliderebbe un falso storico. La ricostruzione del Teatro, ad opera del Meduna, dopo l’incendio del 1836, fu criticata anche dai contemporanei. (LA FENICE: PORTOGHESI – RICOSTRUIRLO DOV’ERA SI, COM’ERA NO, Adnkronos, 27/02/1996).
Lo stesso Aldo Rossi, autore della bozza di progetto di ricostruzione del teatro veneziano (morì nel 1998) e autore del restauro moderno del teatro Carlo Fenice di Genova, espresse alcuni dubbi sul concetto di “dov’era come era” imposto dal bando di concorso, parlando più che di copia di immagine del teatro originario (v.d. R.Bodei, La Fenice l’ossessione di copiare il passato, in “La Repubblica”, 22/10/2003 ) .
Ma vediamo ora la vicenda del Teatro di Rimini.
Per il teatro di Rimini, dopo un tentativo di concorso di idee si seguì un iter alquanto travagliato, e alla fine si scelse, visto che il teatro era sopravvissuto al contrario dei quello ternano per un 50 % , una ricostruzione filologica.
Scrisse a proposito del progetto l’architetto Pier Luigi Cervellati (architetto coordinatore del progetto del ripristino filologico). del “nuovo” Teatro Galli di Rimini:
[…] Le fondazioni ci sono, come gran parte delle murature esterne (anch’esse vincolate). Il bombardamento ha distrutto solo una zona della copertura e del palcoscenico. Elio Garzillo, che ha progettato il ripristino per conto del Ministero per i Beni Culturali, ha spiegato che non c’è altra soluzione al di fuori del ripristino filologico. Esistono progetti e varianti a firma Poletti. Esiste una sterminata documentazione grafica e fotografica, nonché rilievi e studi: per la prima elettrificazione, per la messa in sicurezza negli anni ’20 del Novecento, per il rinnovo della tappezzeria e di parte dell’arredo. La soluzione progettuale è tesa a restituire un monumento che esiste. Non solo nella memoria diretta o indiretta di molti riminesi. Esiste nei fatti. Non sarà un falso storico – nonostante talvolta siano meglio dei falsi moderni – bensì la restituzione autentica di un’opera d’arte. Il metodo del ripristino filologico è semplice quanto trasparente. E costa meno del nuovo. Semplice nel riprodurre disegno, forme e strutture progettate dal Poletti o successivamente, fino al bombardamento, Trasparente nell’indicare le innovazioni e gli aggiustamenti che si sarebbero dovuti fare anche se il teatro non fosse stato danneggiato. (“L’Arengo” (Rimini), maggio 2007, pag.4).
Concludendo questo mio intervento, come già affermato in passato, Terni a differenza anche delle città storiche precedentemente citate, si è sempre rivolta verso una dimensione di modernità. Una modernità europea, incarnata anche dalle opere di Wolfang Frankl nostro concittadino, spesso dimenticato. L’architetto tedesco fu allievo di Ernst Neufert docente alla Bauhuas di Weimar, famoso in tutto il mondo per i suoi studi sulla standardizzazione edilizia.
Scrisse il filosofo Remo Bodei a proposito del “dov’era come era” della “Fenice” di Venezia:
[…] Gli esperti di restauro parlano di architettura stratificata quando gli interventi non sono così radicali come nel caso della Fenice. La mia opinione è che in una ricostruzione l´ideale sarebbe mettere insieme gli elementi di continuità storica con una innovazione che sia evidente e creativa., che porti il segno della discontinuità, del trauma subito. Occorre, entro certi limiti, accettare la storia con i suoi irreparabili eventi: è insensato immaginare di fermare il tempo riportando una cosa che è stata cancellata per incuria o per dolo al suo immutato e antico splendore. Le ferite devono lasciare la loro cicatrice: anche le opere d´arte devono portare i segni della storia, devono inglobare le cesure, le discontinuità, inserirle nella continuità. Perché è nella differenza, nell´elemento innovativo che sporge rispetto all´originale distrutto che si mantiene la memoria viva di una comunità. (R. Bodei, La Fenice l’ossessione di copiare il passato, in “La Repubblica”, 22/10/2003)
E’ su questa strada che non possiamo non proseguire, dobbiamo consegnare alle prossime generazioni, l’immagine, la cultura, la sensibilità della nostra epoca, tramandando anche delle opere che mostrino i segni degli “insulti della storia” e delle sue vicende tragiche. Una storia etica appunto e non una ricostruzione teatrale.