Quando arrivi al parcheggio, potresti anche pensare che Carsulae sia quella. Un abbandono totale: le sbarre “paralizzate” verso l’alto, le macchinette per i biglietti obsolescenti, un albero sradicato e in terra chissà da quanto tempo; alcune costruzioni, squallide e vuote. Carsulae, quella vera, da lì non la vedi. Solo che lungo la strada che viene da Terni e Cesi, alcuni cartelli sbiaditi ti guidano fin lì. Autonomamente capisci che devi scendere alcune scale, poi da lì annunciano che ci sono da fare trecento metri. Ma quanto sono lunghi? A occhio bisogna farne almeno il doppio prima di giungere al punto di accoglienza-biglietteria-antiquarium.
C’è un altro parcheggio, questo più “ruspante”, ma certo più funzionale. Solo che questo è in Comune di San Gemini non in Comune di Terni come stettero attenti che accadesse – in una sorta di campanilismo becero – certi assessori della giunta Ciaurro negli anni Novanta del secolo scorso, quando quel parcheggio fu costruito.
E’ una delle giornate di grande occasione a Carsulae, antica (e per certi versi misteriosa) città d’epoca romana sorta e sviluppatasi lungo al consolare Flaminia: c’è la visita guidata alle nuove scoperte. Da turisti, appassionati e persone desiderose di conoscere c’è una risposta sorprendente all’iniziativa che è un successo. Ternani, ma soprattutto non ternani, a riscoprire – finalmente – un luogo che avrebbe meritato maggiore fortuna. “E questo è niente – dice una signora all’amica che le cammina a fianco – qui sotto non si sa quanta roba c’è”. E’ quel che dicono tutti da decenni, tanto che ormai sembra un luogo comune, al pari di “non esistono più le stagioni”. Invece è proprio così. “Eh sì, di Carsulae è stato scoperto solo il dieci per cento, forse il quindici”: la conferma viene, immediata, dalla guida, uno dei giovani archeologi che lavorano agli scavi, quelli portati avanti con la collaborazione dell’Università di Sidney (Sidney, non Perugia o Roma) e l’aiuto finanziario della Fondazione Carit. E alla lamentazione di uno dei visitatori secondo cui i reperti poi finiscono sempre a Perugia, la riposta del giovanotto à decisa: “No, quello che abbiamo trovato qui ce lo siamo tenuto noi”. Sta all’antiquarium, dove l’anziano frequentatore di Carsulae – quando ci si passava in mezzo in automobile; dove si andava a primavera a mettere a frutto il giorno della “sega” a scuola giocando interminabili partite di pallone sul prato vicino all’arco di San Damiano – ritrova il “ginocchione” di una grande statua dell’imperatore (forse?) che anni addietro stava lì, in mezzo alle rovine. Era sparita alla vista ed il timore era che qualcuno avesse pensato di metterla a corredo della casa di campagna, anche se spostare quel ginocchio grande quanto un uomo (magari non altissimo) non era una cosetta.
Non può non destare interesse il materiale dell’Antiquarium. Lanterne, i cippi carsulani (pietre squadrate grosse così che segnavano le sepolture), qualche altro pezzo di statua, sarcofagi. E roba di “lusso” del tempo dei Romani.
Bene. La folla si muove. Va verso le nuove scoperte, che si affiancano all’arco di San Damiano, alle tombe appena al di là di esso, al basolato della Flaminia Romana, ai templi gemelli, alla sequela delle taverne (ma erano più che altro magazzini) che sorgevano e si trovano ancora lungo la Flaminia; le terme che questa volta non sono visibili. Lì è chiuso: ci lavora un altro gruppo con un’Università americana (americana, mica italiana!). E il teatro e l’anfiteatro, talmente grandi che quella città non poteva essere certo una villaggetto con quattro abitanti.
Le nuove scoperte? Un tratto di via lastricata nella zona della dolina, dove il terreno sprofondò portandosi appresso quel che si si trovava sopra; e poi alcuni ambienti: la bottega di un fornaio, dove si è trovato il punzone per “mettere il timbro sul pane”; sessanta monete nell’ambiente ad esso vicino: in sostanza il segnale che da quella parte si sviluppava un bel pezzo di città.
E poi, dalla parte opposta rispetto all’asse della Flaminia, subito appresso ai tempi gemelli, le nuove scoperte in quello che era il foro: ambienti lussuosi, una domus o forse due o può darsi un altro tempio: “Per provare a saperlo dobbiamo studiare tutti i reperti trovati, avremo l’inverno per farlo”, dice la guida. Ambienti pavimentati con grandi mosaici di pregevole e mirabile fattura e, sotto, un altro strato di città, antecedente: alcuni lastroni fanno pensare che lì si trovasse il foro della Carsulae dell’età Repubblicana, poi ampliata, forse recuperata, e certamente abbellita in epoca imperiale. Poco lontano ecco un tempio, il più importante della città forse anch’esso doppio. Ed insieme una strada lastricata con pietra rosa e un tempietto, anch’esso di pietra rosa. C’era un boschetto lì sopra: fitto, fitto che ogni volta che ci finiva il pallone erano dolori per riprenderlo.
Il tempo, i decenni, i secoli avevano inghiottito tutto questo insieme a chissà che altre. Ora c’è tutto da riportare alla luce, perché come diceva la signora all’amica “Non si sa quanta roba c’è ancora”. E se uno ci pensa un attimo non può che arrabbiarsi.