Giancarlo adesso fa l’imprenditore. “Per quanto mi riguarda posso dire che, a conti fatti, meglio che sia andata così. Quando la Sit Stampaggio ha chiuso dovetti darmi da fare, imparare cose di cui non sapevo niente: tratte bancarie, finanziamenti, bolle di accompagnamento, avere dipendenti, muoversi in mezzo ad un mondo sconosciuto. Egoisticamente parlando, alla fine m’è andata meglio… Però fu una brutta storia quella della Sit”.
Lo Stampaggio nacque dallo scorporo di un reparto delle acciaierie: lo rilevarono tre soci di Torino, Pianelli in prima fila, allora personaggio conosciuto ai più perché presidente del Torino Calcio. “Sì, ma mica erano proprio loro: dietro c’era la Teksid, la Fiat”, dice un altro degli ex lavoratori Sit.
Una meteora. La fabbrica restò aperta una decina di anni, poi cinquecento operai furono messi in cassa integrazione. Scioperi, proteste, cortei, picchetti davanti ai cancelli della fabbrica. E poi interrogazioni parlamentari, ordini del giorno delle istituzioni locali, trattative estenuanti.
Niente. Non ci fu niente da fare. Nel 1982 la Sit Stampaggio chiuse. “Il bello è – commenta Alvaro – che ancora non s’è capito perché. Perché ha chiuso quella fabbrica nata da appena una decina di anni?”.
Misteri della finanza, delle multinazionali, degli imprenditori “disinvolti” pronti a utilizzare finanziamenti agevolati, facilitazioni, a spremere gli impianti senza mai reinvestire fino a quando non conviene più e si chiude. Buttando via la chiave, Accada quel che accada.
“All’inizio si lavorò nel vecchio reparto dentro lo stabilimento delle acciaierie, da cui lo stampaggio fu scorporato: avevano recintato tutto, avevano fatto un ingresso autonomo da Pentima, ma dopo pochi mesi ci trasferimmo tutti nel nuovo stabilimento di Maratta”, racconta una signora che alla Sit era impiegata: “Facevo le buste paga”…
Parlano di una fabbrica costruita in fretta e furia nella zona industriale ternana. I soldi? Aiuti legati alla Cassa del Mezzogiorno, uno dei tanti provvedimenti governativi che miravano a riequilibrare il Sud e il Nord del Paese.
Ma la “Cassa” nel ternano non era operativa perché il confine tra sud e nord passava lungo il confine tra Umbria e Lazio. Per uno sputo, ma Terni era fuori. E allora? “E’ uno dei misteri di tutta questa vicenda”, dicono parlando tra loro quattro di quelli che furono gli operai dello stampaggio. “Misteri, poi! La Fiat era la Fiat…”.
“Il 22 novembre 1982”, specifica la signora delle buste paga. “E’ la data precisa della chiusura”.
Sono passati 37 anni, quasi. E da allora ogni anno, si ritrovano. Non tutti, ovvio, ma in un ristorante di Montecastrilli, erano una settantina anche quest’anno. Ritrovarsi a cena, per rivedersi, ricordare quei tempi. Domandarsi dov’è finito il dirigente Angioni. Chissà? Un damerino spedito giù da Torino. Di ternani, ai vertici non ce n’erano. “Ma per un periodo a dirigere tutto fu l’ingegner Papuli. Che brava persona!…”.
Papuli, Gino Papuli. Fu un alto dirigente delle acciaierie, si impegnò molto, dentro e fuori la fabbrica, per Terni. Un intellettuale vero. E’ scomparso già da alcuni anni, dopo essere stato – inascoltato – promotore dell’archeologia industriale ternana che reputava un patrimonio non solo culturale.
E loro? Gli operai? Dice: vabbè, la cassa integrazione ti permette di tirare avanti. Ma a loro, in generale, non piaceva pesare sullo Stato, sugli altri lavoratori. Fecero parlare tutta Italia perché chiesero ed ottennero di fare lavori per la città “inventando nella pratica i lavori socialmente utili”, chiosa Vincenzo Ceccarelli.
Ceccarelli era nel sindacato, la Cgil. E fu tra coloro che furono in prima fila nel condurre trattative, organizzare assemblee e manifestazioni di protesta. Adesso, insieme a Roberto Fiori ed Enzo Guidarelli è uno dei principali promotori delle “rimpatriate annuali dei lavoratori ex Sit”.
Si misero a disposizione del Comune di Terni e s’impegnarono in lavori di manutenzione: lo stadio, i parchi pubblici, le panchine nelle vie cittadine. Qualunque tipo di struttura pubblica. Per guadagnarsi ciò che incassavano a fine mese dall’Inps, per difendere la loro dignità a, nello stesso tempo, tenere alta l’attenzione sul caso “Sit Stampaggio”, sul fatto che dall’oggi al domani in centinaia si erano trovati senza lavoro. “Cinquecento operai, 350 tesserati del Pci”, ricorda Giancarlo. “Ero io il segretario della sezione di fabbrica”.
Ma ci si rendeva conto che la strada era tutta in salita, che difficilmente qualcosa si sarebbe mosso. Così, nel frattempo, ognuno si attivava. Hanno con gli anni trovato un’occupazione: chi si è messo in proprio, chi ha trovato posto in fabbriche magari di piccole dimensioni mettendo a frutto l’esperienza acquisita, chi s’è industriato col commercio…
Ma il gruppo è il gruppo. E allora ogni anno rinnovano l’iniziativa. Qualcuno magari con una punta si snobismo: “Paremo tutti reduci”, però non mancherebbe mai. C’è chi declama poesie; si racconta dei nipoti; dei figli che lavorano fuori Terni. Si tirano fuori i nomi di vecchi capireparto, si raccontano aneddoti, ci si sfotte. Con serenità, ormai. Dopo tanti anni!
Una volta colleghi, poi solidali su una stessa barca in un mare agitato, oggi vecchi amici, nel nome di un filo comune, un filo che li unisce, li lega al di là delle alterne fortune: loro sono “quelli della ex Sit”.