Di CHIARA FURIANI
Con quella voce un po’ così, che sembra sempre sul filo del rasoio, sempre prossima a spezzarsi, a svelare una ferita, Michele Bravi rappresenta un prezioso antidoto alla banalità del pop italiano di oggi.
Troppo spesso livellato verso l’omologazione e la carineria da un lato o gli eccessi di autotune dall’altro, a coprire con una passata di belletto il vuoto di contenuti.
A pensarci bene, l’unico nome umbro realmente emerso negli ultimi anni sembra davvero uscito da un altro mondo, da un’altra epoca.
Ha la profondità interpretativa e l’intima delicatezza di uno chansonnier francese, la capacità di dare un peso ad ogni parola con la massima leggibilità, nonostante quel tipico timbro a tratti leggermente arrochito che è uno dei suoi elementi distintivi e in ultimo ha dalla sua un repertorio che è si pop, ma mai troppo prevedibile.
Scarno il setting, ad affiancarlo solo un’eccellente pianista.
Peccato, parafrasando un celebre film, la musica è più bella se condivisa, e non sarebbe dispiaciuto ascoltare una band intera.
Paradossalmente però, Bravi riesce a sfruttare la situazione a suo vantaggio piegando ogni anfratto dell’accompagnamento a fini interpretativi, per sottolineare con le proprie dinamiche espressive un accento, un forte, un piano, una pausa.
Nonostante l’attitudine intimista, il cantante castellano non è affatto timido, e tra i tanti discorsi col pubblico inserisce anche un benemerito invito a pensare alla tragedia di Gaza, che chiama, senza remore, genocidio.
A chiudere come bis uno dei suoi maggiori successi, “Il diario degli errori”, con cui si classificò quarto a Sanremo nel 2017.
Ma trovare delle lacune in un concerto impeccabile è davvero impossibile, così come è impossibile trovare delle falle in quelle che sono state fin qui le mosse di Michele Rossi e Amelia Milardi nella loro opera di promozione culturale.
“Tributo d’Autore” è ormai una realtà consolidata tra le rassegne musicali del nostro territorio.
Avanti così.