Sull’inchiesta pubblicata da “Il FATTO” ha già espresso un suo giudizio il nostro Walter Patalocco (https://terninrete.it/Notizie-di-Terni/il-fatto-e-quotidiano-ma-la-terni-raccontata-e-di-un-secolo-fa-458113). Lo ha fatto anche l’ex assessore alla cultura del Comune di Terni, Giorgio Armillei il quale concorda con Patalocco che una inchiesta come quella fa riferimento a una Terni, vecchia, di qualche decennio fa.”Sarebbe andata bene 50 anni fa”, scrive in un post su facebook, l’ex assessore. Altre sono le sfide che attendono Terni:”l’innovazione industriale, la cultura come strumento di crescita economica, l’emergenza demografica.”
QUESTO L’INTERVENTO DI GIORGIO ARMILLEI
La siderurgia a Terni: una volta gioiello pubblico ora in mani straniere. Ecco il sigillo populista (di rito sovranista) che la didascalia di una foto mette sull’inchiesta de il Fatto quotidiano pubblicata il 5 aprile. Il Fatto fa il suo mestiere che non è esattamente quello del giornalista quanto quello del giornale plus: buone penne a servizio di un progetto di parte. Lecito ma tutt’altro che neutrale. Si stacca dal coro il delizioso corsivo di Valentina Gregori che finisce però centrifugato nella narrazione messa in piedi dal giornale: tante polveri, sempre meno operai e in mezzo una conglomerata di servizi a cavallo tra appalti pubblici e mercato. È questa Terni oggi?Beh, diciamolo francamente: no. Il tramonto del peso della siderurgia è un processo che conta più tappe, da quella degli anni cinquanta, a quella della deriva della gestione statale, altro che gioiello, nella crisi generata dall’evoluzione dei mercati e dal definitivo imporsi del quadro giuridico del diritto europeo in tema di aiuti di stato e di concorrenza. Quindi, come dire, un’inchiesta che parla nei termini de il Fatto sarebbe andata bene 50 anni fa. In verità quella raccontata da il Fatto non è la fotografia della città e neppure una sua ben scritta distorsione. È né più né meno il mito ideologico della città industriale fabbricato per decenni dalla gran parte della cultura politica della sinistra ternana e nobilitato dal mainstream storiografico della scuola di Covino e dei libri di Sandro Portelli. Libri nei quali la voce e la penna della memoria disegnano un’identità della città statica, immobile, incatenata al suo passato anche oltre l’intenzione del suo autore. Come se memoria, storia e identità fossero la stessa cosa. È il mito del “se chiude la fabbrica muore la città” con il quale si perpetua l’invenzione di una tradizione. È il mito demolito dai libri di Cecilia Cristofori che probabilmente a il Fatto quotidiano non hanno avuto modo di leggere.C’è dell’altro a Terni? Sì, c’è dell’altro che fatica e ha sempre faticato a venir fuori, non ha trovato una narrazione che potesse competere efficacemente con quella del mito della città industriale, ha subito quantomeno a partire dagli anni settanta – periodo in cui il sistema politico amministrativo regionale nasce e comincia a strutturare la sua influenza sulla città – il peso del grande abbraccio tra il vecchio fordismo sociale della grande industria e il nuovo fordismo politico del sistema amministrativo. L’altra Terni non è ancora riuscita a costruire istituzioni collettive per l’innovazione, non è riuscita a generare una leadership collettiva, non si è dedicata a quel paziente lavoro di rete da cui nascono i cambiamenti. Ma c’è.Paradossalmente buttarla però ora sulle polveri e sull’acciaio è un modo, tutt’altro che rivoluzionario, di coltivare il continuismo, di non toccare la diarchia dei poteri che ha dominato il novecento ternano, di giocare con il populismo giudiziario la carta della resa di conti. L’abbraccio tra populismo ambientalista e chiusura identitaria porta Terni a fondo. Le sfide sono altre: l’innovazione industriale, la cultura come strumento di crescita economica, l’emergenza demografica. Non servono investimenti drogati da sussidi pubblici come nel caso della gestione politica dell’area di crisi industriale complessa da parte del governo regionale. Servono nuovi beni collettivi per la competitività. Non serve giocare al decentramento universitario in un negoziato infinito con un Ateneo che non ne vuole sapere. Serve un grande progetto privato sull’istruzione terziaria. Non serve erigere muri reali e ideologici contro un’immigrazione che funziona anche da stabilizzatore demografico. Serve rendere Terni attrattiva.La cultura populista è una cultura fatta di soggetti e non di regole. Conta il chi e non il come: basta sostituire il popolo alle élite per realizzare il cambiamento. Non è così, neppure a Terni. All’ondata populista la diarchia dei poteri si adatterà senza grandi difficoltà. E così farà anche la conglomerata. Ma Terni sarà diventata una vera e propria pensionopoli, come avrebbe detto il buon Max Weber.