Torna ad esternare l’ex assessore alla cultura del Comune di Terni, Giorgio Armillei. Lo fa con un lungo post pubblicato sul suo profilo Facebook in cui si occupa della “macchina amministrativa” e della sua necessaria riforma.
Individua tre strade da seguire: ridurre, privatizzare, razionalizzare , senza ricorrere a “più poteri per l’anticorruzione”, modello giudicato “invasivo”.
Qualche tentativo di modernizzare la “macchina” è stato effettuato ma senza risultati essendo stati puntualmente boicottati. E qui Armillei chiama in causa il Partito Democratico e la maggioranza di governo che guida la città.
DI GIORGIO ARMILLEI
In un suo intervento di qualche giorno fa Luca Diotallevi inseriva la riforma della macchina amministrativa comunale tra le questioni sulle quali misurare le proposte di svolta nella politica ternana, il necessario “cambio di agenda”. Una riforma vera e non di facciata.
Provo a raccogliere lo spunto e a dire qualcosa “dall’interno”. Innanzi tutto sgomberiamo il campo dai miraggi: il modello “più poteri all’anticorruzione” non serve a riformare l’amministrazione locale. E’ un modello invasivo – fa coincidere disfunzione con corruzione – che moltiplica controlli e sospetti. Come dice l’ex giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese “prevenzione della corruzione vuol dire innanzi tutto avere buoni tecnici, ben selezionati e ben pagati. Non vuol dire avere per ogni amministrazione un nuovo angelo custode”.
Chi tenta di riformare le amministrazioni pubbliche in Europa ci dice che ci sono tre strade da seguire: ridurre, privatizzare e razionalizzare. Ridurre significa accorciare il perimetro dell’intervento pubblico. Mi sembra una soluzione molto lontana dalla cultura e dagli interessi di tutta la politica locale. Immaginiamo cosa significherebbe restituire in sussidiarietà – come sarebbe possibile – alla città alle sue imprese profit e no profit, alle espressioni delle comunità religiose, la gestione dei servizi educativi comunali. Impensabile nel quadro attuale.
Privatizzare significa utilizzare le forze del mercato per fornire i servizi pubblici. All’amministrazione pubblica resterebbe una funzione di arbitro a tutela degli interessi dei cittadini, in qualche caso anche con l’aiuto di valutatori indipendenti. Ci si è provato con risultati alterni. Alcuni – nonostante quanto si dice – buoni: l’esempio di CAOS frutto di una gara europea selezionata dal MISE come best practice. Altri largamente insoddisfacenti, specie quelli che hanno visto la creazione di aziende a partecipazione pubblica.
Resta la modernizzazione, cioè il tentativo di adeguare l’amministrazione che c’è alle esigenze della città che vorremmo, cercando di tenere ben distinti il piano politico da quello amministrativo. Qui i tentativi sono stati molti in questi anni. Altrettanti gli ostacoli: difficile far digerire vere riforme al quadro politico attuale.
Qualche esempio? Una tra le buone cose avviate dalla Giunta Di Girolamo nel biennio 2014/2016 – prima che PD e maggioranza di governo imponessero la fine di quell’esperienza amministrativa – è stata la costituzione (a costo zero) degli uffici di staff degli assessori. Sembrerebbe un dettaglio, nella sostanza era una svolta. Staff degli assessori significava più forza per l’azione politica di indirizzo e controllo e allo stesso tempo più distinzione – salutare – tra la politica e l’amministrazione. Si aumentava il supporto tecnico al lavoro della Giunta e si comprimeva lo spazio per i poteri di veto dei dirigenti comunali chiamati, viceversa, a gestire e raggiungere obiettivi. Si riduceva in altri termini la cosiddetta “asimmetria informativa” che mette gli amministratori nelle mani dei burocrati. Una riforma osteggiata non a caso da burocrati, partiti e sindacati.
Al contrario una delle cose non fatte è stata una vera politica di riequilibrio tra tasse, tariffe e servizi. Come dicono gli inglesi “value for money”: il che significa scacciare la demagogia e premiare l’efficienza. Della serie: quale livello dei servizi si può assicurare, a fronte di quali ricavi e con quale gettito? La maggioranza di governo, forse mal gestita, si è messa di traverso: ha visto in questa riforma il rischio di perdere il suo potere di intermediazione. Non a caso l’unico soggetto che si è incamminato su questa strada è l’Istituto Briccialdi, nonostante gli sgambetti di quella stessa maggioranza.
Ha ragione dunque Diotallevi a collocare la riforma della macchina amministrativa tra le priorità: la sfida sta tutta nella costruzione di una alleanza riformatrice. Due condizioni appaiono essenziali per vincere la sfida. Innanzi tutto una “coalizione politica trasversale” che, isolando i conservatori di destra e di sinistra da una parte e il populismo giudiziario dall’altra, faccia propria l’equazione tra riforma amministrativa e rilancio della città. Lasciando in panchina generazioni di politici locali abituati a pensare l’amministrazione come risposta ai problemi del mercato del lavoro locale. In secondo luogo una “spinta interna” all’autoriforma legata alle possibilità di crescita professionale. Potrebbe essere uno schema valido anche oltre la riforma dell’amministrazione. Non si dà infatti riformismo in solitudine. Provare per credere.