Giorgio Armillei, ricercatore, dirigente comunale, intellettuale pubblico d’area cattolica nonché figura di spicco nel mondo politico e associazionistico umbro (è stato assessore alla cultura del Comune di Terni, membro dell’Associazione Cattolica diocesana e segretario del Consiglio Pastorale) è scomparso lo scorso sabato a causa di un improvviso malore. Aveva 62 anni.
Pensatore di notevole spessore e fine studioso, persona mite e riflessiva, naturalmente portata al dialogo e al confronto, Armillei aveva mosso i primi passi come ricercatore all’IRRES. E con l’AUR – che dell’IRRES rappresenta la diretta continuazione – ha collaborato attivamente nel corso degli ultimi anni. Per il fascicolo in uscita della rivista dell’Agenzia, aveva scritto e appena corretto di suo pugno (il giorno avanti la sua morte prematura) un lungo saggio dedicato al tema della città.
Come omaggio alla sua figura e per ricordarne il lavoro abbiamo deciso di pubblicarlo in anteprima. È probabilmente il suo ultimo scritto e figura, a questo punto, come una sorta di eredità-testamento. Nell’articolo Armillei illustra, con la sapienza e la capacità analitica che tutti gli riconoscevano, il ruolo fondamentale che la cultura e le realtà urbane (tra di loro strettamente intrecciate) rivestono per lo sviluppo dell’Umbria.
Si tratta di uno scritto che mostra bene il suo modo di concepire l’impegno scientifico-intellettuale, sempre nel segno dell’impegno civile e di un diretto coinvolgimento nei temi trattati, e che oggi si legge non senza un grande rammarico.
Alla famiglia di Armillei (alla moglie Donatella e al figlio Francesco) vanno le condoglianze dei suoi amici e colleghi – rimasti tali anche dopo molti anni – dell’Agenzia Umbria Ricerche.
LA CENTRALITÀ DELLE CITTÀ E DELLA CULTURA PER LO SVILUPPO REGIONALE
DI GIORGIO ARMILLEI
La cultura e la città
Ancora la cultura, ancora la città. Sì, per parlare di ripresa e di crescita, a maggior ragione in tempo di pandemia e di post pandemia, cultura e città sono parole che tornano, protagoniste che vanno richiamate sulla scena. Purché ovviamente ci si intenda e si evitino due scorciatoie. Assumere una visione “petrolifera” della cultura, come è stata efficacemente definita, in base alla quale la cultura genera ricchezza solo che la si estragga e la si mostri, è la prima scorciatoia. Continuare a pensare le città, soprattutto le città medie dell’Umbria, come semplici aree di atterraggio di politiche settoriali regionali o statali, è la seconda.
Dicevamo visione petrolifera della cultura. Per molti anni, forse anche sotto l’effetto di un fortunato quanto ambiguo claim della politica degli anni ottanta del secolo scorso, si è pensato alla cultura come bene da scoprire e sfruttare. L’immagine dei giacimenti culturali, facilmente applicabile ai beni culturali come a quelli paesaggistici, ha messo in secondo piano se non oscurato l’altra faccia della medaglia: la cultura come produzione, la cultura come settore industriale, la cultura del lato dell’offerta e non da quello della domanda. Insomma, riscoprire, tutelare e valorizzare per soddisfare domanda di cultura non bastava più. Occorreva cominciare a produrre e dunque a mettere insieme imprenditorialità, formazione e beni collettivi per la competitività. Si andava capendo che per crescere non bastava e non basta intercettare flussi di turismo culturale, portare cioè nuovi clienti a sfruttare nuovi o vecchi giacimenti. Occorreva ragionare in termini di imprese culturali e creative. E per dirla tutta non era neppure necessario disporre di giacimenti o darsi da fare per scoprirne e inventarne di improbabili. Era al contrario indispensabile investire sulla dimensione urbana, sulla formazione e sullo spirito imprenditoriale, qualcosa che paradossalmente aveva più chance in territori industriali o ex industriali che in contesti dotati di ricchezze artistiche e paesaggistiche. Non perché chi ne dispone debba farne a meno, ovviamente: ma perché disporne vuol dire spesso prendere le scorciatoie e le scorciatoie non sempre sono una buona idea. In ogni caso è a partire da quegli stessi anni ottanta che si cominciano a progettare e implementare strategie di crescita urbana culture driven in Europa e negli USA, spesso a partire da contesti in via di deindustrializzazione.
Facciamo un lungo salto temporale, arriviamo al 2020 e la pandemia finisce con l’ingarbugliare ancora di più le cose. La disattenzione verso la dimensione urbana della crescita e delle politiche per la crescita ad un certo punto è sembrata quasi tornare utile: la pandemia stava dimostrando che in una qualche misura si poteva fare a meno di pensare in termini di crescita delle città, la mobilità e le connessioni digitali potevano rendere inutile continuarne a sopportare i costi di agglomerazione. Pandemia e quarta rivoluzione industriale, smartworking e robotizzazione, sembravano condurre a conclusioni inesorabili: dalla fine del lavoro alla fine della città. Insomma, la scorciatoia di una crescita che faceva a meno delle città. Dateci banda ultra larga, amenities e borghi rigenerati e apriremo una nuova fase di crescita felice. Una specie di “bevagnizzazione” su larga scala: e dove se non in Umbria sperimentare questa soluzione?
È già stata (Croce, 2021) messa in luce la fallacia di questo schema in termini di crescita economica. La realtà è che la “domanda di città” non viene certo meno per effetto della pandemia. Economie di localizzazione, diversità e qualità dei sistemi di relazione, disponibilità di servizi culturali, persistenza delle relazioni faccia a faccia come requisito anche di molti dei lavori del futuro, strategie competitive di attrazione definiscono un insieme di spinte verso un permanente dinamismo urbano. L’Umbria soffre invece della debolezza delle sue aree urbane in ragione di politiche di sviluppo locale che ne hanno trascurato la soggettività e dell’esaltazione simmetricamente dannosa del mito della città regione e di un altrettanto mitico policentrismo fatto in verità di scarsa qualità dei servizi e bassa competitività (Alessandrini Bracalente Benvenuti, 2016). Ma prima di tornarci su a proposito di cultura e città, può essere utile fare un passo indietro e andare velocemente a dare un’occhiata alla situazione in cui si trovava l’Umbria in termini di cultura e città prima della pandemia. Il quadro non era confortante: destreggiandosi tra giacimenti culturali, beni paesaggistici, cineturismo e turismo religioso, l’Umbria e soprattutto le sue città non erano riuscite a fare dell’industria culturale e creativa una delle gambe del loro modello di crescita. Al contrario, il disallineamento tra la percezione generata da numeri non troppo distanti dai valori medi nazionali e i reali ma non visibili ritardi strutturali, aveva a lungo creato l’illusione di poter lucrare senza troppi sforzi sui vantaggi fabbricati dalla storia, sull’eredità conferita dal tempo. La scorciatoia dei giacimenti e il successo facile del cineturismo.
Imprese culturali e creative in Umbria
Tralasciando in questa sede le non poche incertezze sulle classificazioni settoriali, la quota di valore aggiunto riferibile al sistema produttivo culturale e creativo in Umbria sul totale del valore aggiunto dell’economia regionale era pari nel 2019 al 4,9% contro il 5,7% nazionale (Symbola, 2021). L’occupazione raggiungeva il 5,7% contro il 5,9% nazionale. Come si vede quote non lontanissime dai valori nazionali, per altro inferiori ai valori delle aree leader a livello nazionale ed europeo. Curiosando tra i dati, si poteva tuttavia raccogliere più di un indizio di debolezza, come vedremo strettamente legato alla doppia scorciatoia di cui si accennava sopra: affidarsi ai giacimenti senza il motore dello sviluppo urbano (Casavecchia, 2018; Orlandi Santagati, 2014).
Tanto per cominciare l’Umbria mostrava una quota di valore aggiunto più debole nel settore core del sistema produttivo culturale e creativo (2,5% contro il 3,2% nazionale) a vantaggio del settore culture driven in larghissima parte dominato dall’enogastronomico. Analogamente per quanto riguarda l’occupazione: 3,2% in Umbria contro il 3,4% nazionale. A livello nazionale l’Umbria risulta così al 12mo posto per il settore core, ultima delle regioni del centronord e prima delle regioni del sud. Debolezze analoghe si mostravano nella capacità del sistema produttivo culturale e creativo in Umbria di attivare spesa turistica, 37,3% del totale contro il 38,1% nazionale a fronte di un ben più consistente 51,2% delle Marche. Le cose non erano molto diverse a proposito della spesa pubblica. Nel 2019 i Comuni dell’Umbria destinavano ai beni e alle attività culturali 32,4 euro pro capite a fronte dei 42,5 euro delle Marche e ai 51,9 euro della Toscana, con una notevole differenza tra Perugia con 35,6 euro e Terni con 22,7 euro (-36,2%). Analogo l’andamento della spesa da bilanci regionali: Umbria 7,4 euro pro capite, Marche 10,9 euro, Toscana 11,9 euro (BDAP, 2019; Openpolis, 2019).
Già in fase pre-pandemia l’Umbria arrancava sotto altri aspetti in relazione alla media nazionale e alle regioni del centro. Solo un 1% del PIL a ricerca e sviluppo, contro un 1,5% nazionale e un 1,4% dell’Italia centrale. Solo 15,8% degli occupati con istruzione universitaria, contro il 19,5% nazionale e il 17,3% dell’Italia centrale. Ma soprattutto un tasso di migratorietà (saldo uscite entrate) nella classe 25-39 anni con istruzione terziaria pari al -7,1% contro il -4,0% nazionale e il -2,4% dell’Italia centrale: i talenti se ne vanno dall’Umbria (Umbria in cifre, 2018). E senza talenti non c’è patrimonio culturale e paesaggistico che tenga. Gli andamenti demografici macro sembrano confermare il trend negativo: mentre negli ultimi 15 anni le aree urbane non metropolitane in Italia aumentano la loro popolazione del 4,0%, Perugia negli ultimi 10 anni vede diminuirla dell’1,95% e Terni del 2,93%.
Indizi significativi che convergono in un punto del tutto evidente: giacimenti senza robusto sistema produttivo e paesaggio senza centralità urbana non erano le strade giuste per investire sulla cultura, fare pil e creare lavoro. Indizi confermati dai dati del monitoraggio della Commissione europea sulle città creative (European Commission, 2021). Se Perugia, ad esempio, si conferma dotata di beni culturali ed eccellenze paesaggistiche in quantità superiori alla media dell’Unione (con un indice sintetico superiore del 31,1% alla media) le cose vanno in tutt’altra direzione se prendiamo come riferimento l’occupazione nel settore delle nuove imprese culturali (-53,7%), le connessioni infrastrutturali (-73,3%) il numero dei brevetti (-71,7%) o i laureati ICT (-55,3%). Insomma, non basta resistere alla modernità dei “non luoghi” per avere crescita: per inerzia o convenienza si è invece pensato che fosse sufficiente.
Non bastava e non basta a maggior ragione in tempo di pandemia e di post pandemia. Né è possibile cavarsela con la politica degli eventi che non è certo un male in sé ma che, se non inquadrata in un contesto più ampio di politiche per lo sviluppo urbano, resta solo un altro esempio di scorciatoia senza sbocco. Studi di caso hanno mostrato qualche anno fa (Bracalente Ferrucci, 2009) come in Umbria, in riferimento ai più importanti eventi culturali, il 43% dell’impatto economico generato non viene trattenuto e solo il 15% ha a che fare con funzioni culturali e creative di tipo non tradizionale, come sono invece ricettività e commercio. La ragione è intuibile: debolezza dell’attrattore urbano, incompletezza delle filiere, mancanza di una spiccata specializzazione produttiva. Insomma, la politica degli eventi concepita per intercettare flussi turistici come quella del cineturismo concepita per sfruttare i giacimenti (il passaggio di una piazza o di un borgo in prima serata nella tv generalista o su qualche piattaforma) non danno ritorni in termini di sistema produttivo e quindi di crescita. Prima dei turisti occorre attrarre investimenti e talenti. E per attrarre investimenti e talenti occorrono città all’altezza della sfida.
Ripartire dalle città
“Le urban region e le middle cities si mostrano luoghi di sperimentazione di politiche per la sostenibilità più dinamiche e innovative degli stati nazionali e delle istituzioni regionali” ci dice l’ultimo rapporto di Urban@it sulle città e lo sviluppo sostenibile (Urban@it, 2021). Ma per avere città medie all’altezza della sfida, specie in una fase nella quale le imprese e dunque l’economia regionale sono considerate ad alto rischio per gli effetti della crisi indotta dalla pandemia, facendo scivolare inesorabilmente l’Umbria accanto alla gran parte delle regioni del Sud, occorrono scelte definitive che portino ad un livello più avanzato indirizzi accennati timidamente nei decenni precedenti ma mai compiutamente realizzati. Dalle azioni place based dirette a superare il rischio di “cecità spaziale” delle politiche pubbliche di sviluppo locale (Angelini, Bruno, 2016) ai POR 2014-2020 con le loro Agenda urbane, dall’Agenda urbana europea alle troppo frammentarie politiche urbane nazionali, fatte di ripetuti bandi settoriali, la questione delle politiche territoriali di sviluppo e quella della centralità della dimensione urbana nelle strategie di ripresa hanno più volte tentato la scalata delle priorità delle scelte di policy senza mai ottenere risultati di sistema. Complici il centralismo del governo nazionale – dal 2000 al 2018 la spesa statale per la cultura (Federculture, 2021) è cresciuta dell’11% mentre quella dei governi locali diminuiva del 27% – l’accresciuto e spesso inefficiente potere di intermediazione dei governi regionali, l’indebolimento delle tecnostrutture dei governi delle città, abbiamo assistito a una paradossale divaricazione: tanto più si faceva appello alle politiche urbane, tanto meno le decisioni che si andavano assumendo corrispondevano, per qualità dei processi di policy e per quantità degli investimenti, a coerenti strategie di crescita urbana. Un tema su tutti ha mostrato la fragilità del disegno generale: l’assenza pressoché totale di strategie di rete tra città, ben oltre i confini regionali (Diotallevi, 2021). Strategie che consentono di rimediare per così dire alle debolezze dimensionali mettendo insieme risorse in base a strategie di complementarità o di specializzazione, realizzando economie di agglomerazione senza subire (tutti) i costi di agglomerazione (Agnoletti Camagni Iommi Lattarulo, 2014).
Indizi di un quadro di riferimento che naturalmente offrono spunti per ragionare sulle conseguenze di policy, a cominciare dal primo fondamentale paletto: cultura e sviluppo urbano hanno bisogno di un rinnovato e potenziato presidio di policy territoriale. Sono le città ad essere i motori della ripartenza: è a livello urbano che vanno strutturate forme adeguate di governance e altrettanto adeguate forme di cooperazione tra città. Il che ha conseguenze su diversi livelli: disegno istituzionale, framework di finanza pubblica, gestione partenariale delle politiche di coesione 2021-2027 come degli interventi del Recovery Plan.
Dalle città alle reti di città
Reti di città naturalmente non significa reti tra pubbliche amministrazioni o tavoli regionali ai quali far sedere le amministrazioni locali. Significa reti nelle quali interagiscano tutti i protagonisti della governance locale, a partire da due attori cruciali per lo sviluppo urbano sui quali conviene richiamare l’attenzione: le università le fondazioni di origine bancaria. Qui occorre un salto di qualità che abbandoni la logica della piccola dimensione e punti a convergere verso una dimensione di rete, competitiva con le aree urbane europee più forti. Non mancano gli spunti: dal protocollo ACRI MEF del 2015 (1) dove si parla in dettaglio di collaborazione e aggregazione tra Fondazioni, agli strumenti di cooperazione tra Atenei (2) previsti dall’ordinamento universitario. Con esempi di successo, basti pensare a MUNER (3), la rete tra Atenei ed imprese, nata in Emilia-Romagna intorno al distretto della Motor Valley. Ricordando che nel caso delle città dell’Umbria i confini delle reti territoriali si collocano dentro un quadrilatero di riferimento (area metropolitana romana, Firenze, Ancona, Pescara) fatto di una decina di sistemi locali del lavoro sviluppati intorno a città medie ancora dotate di un potenziale di crescita europeo. L’orizzonte è questo e non quello ormai largamente inadeguato dell’Umbria come realtà politico amministrativa. Lo mostrano le cartografie di OECD a proposito delle aree urbane funzionali: è quella la fotografia dell’Italia centrale che conta, non quella dei confini regionali.
Rete significa orizzontalità ma anche presidio. Dal che l’esigenza di un attore funzionalmente specializzato, accumulatore di conoscenze e facilitatore di buone pratiche, niente di verticale e di gerarchico. Le esigenze di aggregazione non richiedono infatti la generazione di nuove scatole generaliste di tipo territoriale – macroregioni, comitati di Presidenti di Regioni, riequilibri territoriali tra province (4) – ma lo sviluppo di strumenti funzionali dotati di grande expertise tecnico e di autonomia operativa (5). Una sorta di agenzia per lo sviluppo delle imprese culturali e creative e della rigenerazione urbana del quadrilatero dell’Italia centrale, motore delle economie di rete tra città e aggregatore delle necessarie funzioni di lobbying.
Fig. 2 – OECD, Aree urbane funzionali, Italia, 2020
Fonte: OECD, Functional Urban Areas, Italy, 2020
Si pensi allo sviluppo a rete di una formula come quella della Fondazione per l’innovazione urbana di Bologna o alla neonata HAMU con riferimento alle regioni Abruzzo, Marche e Umbria (6). Un motore con un’elica a quattro pale: imprese, università e istituzioni culturali, amministrazioni locali, fondazioni e altre forme di aggregazione sociale. Un motore che funzioni in senso opposto alla logica distributiva e compensativa di tante politiche per lo sviluppo locale attivate negli ultimi 25 anni, dai contratti d’area alle aree di crisi industriale. Nati i primi per affiancare con una logica dall’alto i patti territoriali, quelli sì generati dal basso in una logica di cooperazione competitiva tra gli attori dello sviluppo locale. E finite le seconde per distribuire alle imprese risorse addizionali rispetto a decisioni di investimento già prese. Un motore che serva a ridurre la frammentazione endemica delle politiche di sviluppo locale che caratterizza l’Umbria da decenni, in modo particolare per quanto riguarda l’uso dei fondi strutturali europei. Come spiega Elisabetta Tondini nell’ultimo dei Rapporti RES (AUR, 2019) in Umbria le politiche di coesione 2014-2020 finanziano progetti di taglia superiore a 1 mln di euro solo con il 15% delle risorse a fronte del 60% della media nazionale. Il costo medio di un progetto finanziato in sede POR-FESR è 30 mila euro a fronte dei 540 mila euro delle regioni più sviluppate e di 1,5 mln di euro in quelle meno sviluppate.
Riconciliare cultura e città per promuovere politiche di crescita implica anche non abbandonare la strada dell’aggiornamento delle funzioni delle istituzioni per la valorizzazione e la fruizione del patrimonio culturale. Gli irrigidimenti che contrappongono tutela a valorizzazione dovrebbero ormai essere un ricordo del passato. Ad esempio, sono ICOM e OECD a dirci che i musei sono centri di conoscenza che si debbono trasformare nei modi più diversi in incubatori di start up nel settore delle imprese culturali. Debbono diventare veri e propri hub della cultura e dell’impresa culturale, essere protagonisti in forme aggiornate di politiche per lo sviluppo di distretti culturali evoluti, collaborare con università ed imprese non esigendo mecenatismo ma offrendo partnership e valore aggiunto. Obiettivi impossibili a realizzarsi senza strategie di rete e iniezioni di imprenditorialità nella gestione dei musei. Le prime e la seconda da tempo oggetto di policy regionali che non sono riuscite tuttavia a vincere la tentazione dirigista, giustificata dall’esigenza di superare la polverizzazione del sistema regionale degli spazi museali ma penalizzante per le potenzialità dei sistemi urbani delle città medie della regione (Orlandi, 2017). Come pure occorre non abbandonare l’investimento nell’arte pubblica, leva essenziale per alimentare, custodire, trasformare l’atmosfera creativa nei contesti urbani, lontano da ogni tentazione conservativa e nostalgica. L’arte negli spazi pubblici genera effetti trasformativi che transitano attraverso il dialogo tra l’artista e l’audience ma allo stesso tempo sedimentano spinte potenti in direzione della rigenerazione urbana e della crescita.
Un PNRR oltre l’Umbria
In conclusione, queste note tendono principalmente a ricordare che cultura come impresa e città come istituzione sono forme sociali essenziali per ripartire e crescere, in modo del tutto evidente se pensiamo alle città e ai sistemi urbani dell’Italia centrale. Come scrive Linda Di Pietro in un recente lavoro AUR sull’Umbria del futuro, tutto questo è possibile solo se si esce dai confini regionali, se si punta all’attivazione di processi di innovazione sociale dal basso, se le politiche pubbliche si pongono come funzione sociale tra funzioni e non come funzione delle funzioni, se il focus è sui sistemi urbani e le loro reti (Di Pietro, 2020). Insomma, per salvare e rilanciare l’Umbria occorre andare oltre l’Umbria, in un certo senso occorre perderla per tornare a crescere. Perché a ripartire e a spingere la crescita sono innanzi tutto le città e le aree urbane.
A differenza del QSR per il settennio 2021-2027 messo in stand by dalla pandemia, il documento per il PNRR Umbria fa più di un passo nella giusta direzione. Al netto di considerazioni che non possiamo sviluppare in questa sede in ordine alla sua implementabilità coordinata con il PNRR Italia e al dimensionamento degli stanziamenti finanziari, la consapevolezza delle debolezze dell’Umbria è finalmente messa a fuoco e diventa fattore di stimolo per la ricerca di nuove strategie di ripresa e di crescita. Qua e là le città compaiono come soggetti delle azioni per lo sviluppo e non più solo come destinatarie delle policy regionali. Qua e là si riprende a tessere la tela che era stata avviata e poi abbandonata con l’implementazione delle strategie di Agenda urbana 2014-2020. Sembrano però essere ancora poco valorizzati tre elementi essenziali per dare conto di un salto di qualità nelle politiche pubbliche regionali.
Innanzitutto mancano quelli che Urban@it chiama “quadri strategici spazializzati” che mostrino l’integrazione territoriale degli interventi settoriali, superando così la logica delle aree di atterraggio di politiche settoriali centrali, regionali o statali che siano. Quadri strategici che integrino potenzialità territoriali e linee di finanziamento delle politiche pubbliche: in altre parole, matrici di finanziabilità che mettano all’angolo frammentazione e dispersione. Si tratta dello stesso approccio multiterritorio e multifondo indicato da OECD come essenziale per rafforzare l’efficacia delle politiche di coesione e la loro capacità di coinvolgere i soggetti economici protagonisti della crescita. Non basta infatti la concentrazione tematica o settoriale delle risorse finanziarie se misure di policy e dimensione territoriale continuano ad andare ciascuna per conto loro. In altri termini le città non sono ancora pienamente assunte come i soggetti decisivi per il successo delle politiche di crescita. E anche scelte apprezzabili benché certo non nuove, come ad esempio quella per un distretto ternano dell’impresa culturale e creativa nella filiera del cinema, rischiano di restare prive di un reale ancoraggio urbano ed extraregionale, e dunque isolate e improduttive. Ragionare in termini di distretto significa infatti integrare in un ambito territoriale qualità del coinvolgimento dei soggetti locali con azioni per lo sviluppo imprenditoriale, strategie di attrazione dei talenti esterni con gestione dei rischi di esclusione sociale, istruzione terziaria con riconversione dell’azione dei pubblici poteri in termini di attori facilitatori, sviluppo delle funzioni di networking locale e delle abilità di networking esterno al potenziale distretto. Molto altro dunque che una semplice priorità settoriale (Sacco Ferilli Blessi, 2015).
In secondo luogo, non sempre si tirano le conclusioni dalla acquisita consapevolezza per cui progettare politiche di sviluppo “dentro i propri confini” espone al rischio di fallimento. Come se i corridoi territoriali non fossero già vettori di crescita con flussi di city users, di pendolari, di merci; reali e potenziali filiere; e dunque possibili ambiti di policy, si pensi all’Umbria flaminia che va da Roma ad Ancona. Come se la questione dell’Italia centrale fosse affrontabile dai piani alti dei governi regionali e non dal basso delle città medie e delle loro relazioni con le due aree metropolitane di Roma e Firenze. La giusta intuizione dell’Umbria “partner sperimentale” di una strategia più ampia resta priva di agganci concreti, in primo luogo perché troppo evanescente nell’affermare la centralità della questione urbana anche in una regione come l’Umbria.
L’eccessiva fiducia infine in politiche industriali settoriali che scelgono per conto del mercato, quando al contrario spesso sono solo preda della cattura di interessi particolari e – se va bene – finiscono con il tradire un difetto di informazione e di conoscenza, mostra ancora segni di continuità con le esperienze precedenti. Troppo esili sembrano al suo confronto i riferimenti a politiche orizzontali abilitanti di taglia regionale che producono beni collettivi per la competitività e creano le condizioni perché i soggetti e i territori sviluppino le loro potenzialità.
Per le città medie dell’Umbria c’è spazio per una ricalibratura del PNRR umbro che rafforzi questi punti deboli, per fare della cultura una delle gambe della ripresa, per non restare al palo e vedere sempre più allontanarsi l’Europa del triangolo Bologna Milano Treviso e della dorsale Adriatica. C’è una finestra di opportunità e ci sono le risorse per policy mirate ed efficaci. Servono scelte condivise e un grande investimento in intelligenza collettiva. Serve dare spazio al protagonismo delle città. La spinta del PNRR Italia può giocare un ruolo determinante anche se il modello di governance che si sta mettendo a punto non individua strumenti innovativi capaci di superare i difetti delle allocazioni settoriali. Si legge infatti nel PNRR Italia (versione del 25.04.2021) che “per quanto riguarda l’attuazione dei singoli interventi, vi provvedono le Amministrazioni centrali, le Regioni e gli Enti locali, sulla base delle competenze istituzionali, tenuto conto del settore di riferimento e della natura dell’intervento. L’attuazione degli interventi avviene con le strutture e le procedure già esistenti, ferme restando le misure di semplificazione e rafforzamento organizzativo che saranno introdotte”. Non individua nuovi strumenti ma non pone neppure ostacoli alla loro utilizzazione: la palla torna nel campo delle città.