Di Chiara Furiani
E anche un altro “Umbria Jazz Weekend” se ne va.
Trovata la collocazione definitiva a settembre, dopo vari tentativi in periodi diversi dell’anno, e trovata anche la formula.
Abbandonata una volta per tutte l’idea di destinare a Terni un evento settoriale – come furono anni fa UJ Gospel and Soul, o UJ Latin – ormai anche la nostra città ospita un contenitore onnicomprensivo, così come Perugia e Orvieto.
Via anche l’anfiteatro, sostituito dalle due piazze dello struscio.
E via i biglietti, tutto gratuito, per un festival di resident artists, quindi in sostanza con un programma quasi fotocopia per i 4 giorni di manifestazione.
Una mancanza di varietà che poteva apparire come un limite, ma che in realtà non ha inficiato la qualità, anzi, ha permesso agli artisti di “prendere le misure” e di scaldarsi via via sempre di più.
Quella che è mancata è stata una risposta decisa da parte della città, con una presenza non esattamente altissima nonostante la musica fosse tutta regalata.
Giusto il sabato si è vista un pochino più di gente – comunque sempre poca sottopalco – ma lascia davvero perplessi che a Terni si faccia a volte la ressa per eventi non esattamente di livello, mentre di fronte a una proposta di qualità internazionale ci sia una reazione così tiepida.
Eppure gli artisti ce l’hanno messa davvero tutta.
Il cubano Pedrito Martinez di sera in sera ha superato se stesso, e durante l’ultimo concerto è sceso persino a ballare in mezzo al pubblico.
Energia a mille, verve, contagioso sorriso perennemente stampato in faccia, e soprattutto qualità musicale superlativa, inarrivabile: davvero il vincitore assoluto di questa mini kermesse, ci mancherà.
Ma gli altri non sono stati da meno.
Il funky trombonista Fred Wesley, pur partito un po’ in sordina, poco a poco ha imposto la sua classe sorniona.
Al Baravai il sassofonista Francesco Bearzatti ha traslato la musica dei Led Zeppelin in un mondo tutto suo, trasformando la mitica “Moby Dick” in una ipnotica suite quasi zappiana.
E poi al Rendez Vous il jazz duro e puro di Piero Odorici, paladino del be bop.
Un nome, una garanzia.
Presenza ormai fissa ad ogni UJ che si rispetti, il sassofonista bolognese riesce ogni volta a lasciare il segno con formazioni e programmi diversi, dal sound sempre sanguigno, solido, rigoroso, filologicamente ancorato alla tradizione, ma mai stantio né passatista.
Ai seguaci di Umbria Jazz non resta ora che aspettare dicembre, ovvero la rassegna natalizia orvietana.